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«Garlasco, non c’erano prove sufficienti per condannare Stasi. Ben vengano le nuove indagini su Sempio»



Il giornalista Fulvio Benelli

A diciotto anni di distanza, numerose perizie, diversi processi dall’esito opposto tra loro non c’è ancora una parola definitiva sul delitto di Garlasco. La Procura di Pavia, su impulso della difesa di Alberto Stasi, condannato nel 2015 in via definitiva a 16 anni di reclusione come unico responsabile dell’omicidio di Chiara Poggi, allora sua fidanzata, ha acceso di nuovo i riflettori sull’omicidio avvenuto il 13 agosto 2007. E per la seconda volta indaga sull’amico del fratello della vittima, Andrea Sempio, sottoposto giovedì a Milano al tampone salivare in modo coattivo dal Gip, visto che una settimana prima si era rifiutato di farlo volontariamente.

Fulvio Benelli, giornalista investigativo, si occupa di mafie, criminalità, immigrazione, cronaca nera e giudiziaria. Da poche settimane è in libreria con il memoir, C’ero una volta – le molte vite di Antonino Belnome il calciatore padrino (Fandango Libri), scritto con Cristiano Barbarossa e nel quale viene raccolta in modo dettagliato la testimonianza esclusiva di uno dei principali collaboratori di giustizia italiani. Benelli è anche coautore e regista del programma per il Nove Tutta la verità, una serie di controinchieste sui principali casi di cronaca giudiziaria, come la strage di Erba, il delitto di Avetrana, il giallo di Marco Pantani, il mostro di Firenze e, anche, il delitto di Garlasco al quale nel 2019 ha dedicato un documentario d’inchiesta realizzato con Cristiano Barbarossa e la collaborazione di Gianluca De Martino, che ripercorre le fasi salienti delle indagini di uno degli omicidi più efferati e mediatici della storia italiana.

Benelli, sei sorpreso da questi nuovi sviluppi a 18 anni dai fatti e mentre la pena che sta scontando Alberto Stasi si sta avviando verso la fine?

«Sono sorpreso e al contempo non lo sono. Come cittadino, non posso non provare un certo sgomento di fronte a questi processi che non finiscono mai, un fatto che obiettivamente destabilizza alcune certezze del vivere comune. In un caso come questo, poi, uno è portato a chiedersi: com’è possibile che tutte le verifiche non siano già state fatte? E ora, dopo tutto questo tempo, come si può essere sicuri che una nuova eventuale prova sia affidabile? Come cronista investigativo invece non sono affatto sorpreso perché, avendo studiato in modo approfondito il caso, sono convinto che ogni supplemento d’indagine svolto in modo serio e rigoroso sia cosa buona e giusta. Non sto dicendo che ritengo Stasi innocente. Ma certo è stato sempre l’unico sospettato, e tante altre piste sono state tralasciate. Inoltre, le prime indagini svolte dai Carabinieri di Garlasco non furono all’altezza di un caso così delicato. Basti pensare che il maresciallo Francesco Marchetto che ha svolto i primi rilevamenti è stato condannato per falsa testimonianza. Ed è anche emerso che la scena del delitto fu calpestata da molte persone. Questo è il peccato originale di tutti i processi che si sono succeduti».

Nel 2019 hai curato un documentario che ha messo in fila i fatti e anche i molti dubbi di questo delitto. Tra le varie persone intervistate chi ti ha colpito di più?

«Ci siamo confrontati praticamente con tutte le persone coinvolte in questa vicenda. Una persona che certamente ci ha colpito è stato il giudice di primo grado del Tribunale di Vigevano, Stefano Vitelli. All’epoca dei fatti, Vitelli era un giovane giudice di provincia che si ritrovò catapultato sotto la luce dei riflettori dentro un caso difficilissimo. Comprendendo che le prime indagini erano state lacunose e imprecise, stabilì un supplemento d’indagine che svolse lui stesso sul campo. Animato da un grande amore per il codice, smontò le accuse nei confronti di Stasi una ad una, un po’ come accade nel film La parola ai giurati di Sidney Lumet. Il momento più toccante del suo racconto è stato quando si è recato nella cameretta di Chiara Poggi che – ricordiamolo – era una ragazza di 26 anni, appena laureata. Ed è lì che, in mezzo a quei peluche, in mezzo a quelle foto sorridenti, Vitelli ha toccato con mano il terribile peso di dover dare una risposta ai genitori di Chiara, fermi nella loro enorme compostezza e dignità, ma anche nel loro irredimibile dolore. Il giudice alla fine ha tenuto fede alla sua vocazione e, credendo che non si fosse riusciti a raccogliere elementi precisi e concordanti, ha assolto Stasi per non aver commesso il fatto».

Da cronista, che idea ti sei fatto sulla doppia assoluzione e poi sulla doppia condanna di Stasi?

«Questo caso rappresenta uno degli esempi più eclatanti di come l’interpretazione delle prove possa portare a verdetti opposti. Le due assoluzioni si basarono sull’assenza di tracce biologiche di Stasi sulla scena del crimine, sulla mancanza di movente e sul suo alibi al computer. La Cassazione ribaltò tutto, ritenendo sospetta proprio l’assenza di quelle tracce, dato che Stasi era stato lì la sera prima e diceva di aver scoperto il corpo il giorno dopo. A questo vanno aggiunte le analisi sulle sue scarpe, ritenute lavate dopo il delitto; il ritrovamento del DNA della vittima sulla sua bicicletta; e l’ipotesi che i pedali fossero stati sostituiti. Tutti queste ipotesi furono interpretate come tentativi di occultare le prove. Dopo questo tortuoso iter giudiziario, con orari che prima non combaciano e poi sì, moventi inesistenti, l’arma del delitto che non è mai stata trovata, l’idea che mi sono fatto è simile a quella del procuratore generale della Corte di Cassazione, Oscar Cedrangolo. Un magistrato di lungo corso, vicino alla pensione, che nella requisitoria, dopo otto anni di indagini e cinque processi, allargò le braccia sconsolato e disse: “Non sono in grado di stabilire se Alberto Stasi sia colpevole oppure no”. Ma a questo punto, come ha spiegato in modo magistrale Gianrico Carofiglio nel nostro documentario, la stella polare non può che essere l’articolo 527 del Codice di procedura penale che riprende il famoso assunto latino del Digesto giustinianeo: “in dubio pro reo”. Quando c’è una situazione d’incertezza, bisogna assolvere».

Quanto ha influito, e in che modo, il clamore e la pressione mediatici su questo caso?

«Moltissimo. Il sistema mediatico frettoloso e assetato di novità ha spesso la compulsione di sbattere un mostro in prima pagina. Ma così facendo, non solo rovina vite intere ma influenza anche l’andamento dei processi. Non dimentichiamoci che anche i giudici guardano la tv e leggono i giornali, per non parlare della Corte d’Assise dove 6 giudici su 8 sono popolari, ossia cittadini comuni scelti dalle liste elettorali. E nel caso di Alberto Stasi è stata proprio la Corte d’Assise di Milano la prima a condannarlo. Per questa ragione la spettacolarizzazione non è mai prudente. Noi, per fare il nostro documentario, abbiamo impiegato mesi per studiare le carte, incontrare i protagonisti e fare i dovuti riscontri. Nel frattempo c’erano trasmissioni sulla tv generalista che, con tutto il rispetto, avevano già fatto venti puntate sul caso. Ma la ricerca della verità è un lavoro lento, paziente, silenzioso e senza data di scadenza. Ci vuole molta cautela verso chi è stato ucciso e i suoi parenti. Ma anche verso l’imputato. Il padre di Alberto Stasi alla fine è morto di crepacuore. E non oso immaginare cosa stia passando ora la famiglia di Andrea Sempio, il ragazzo indagato in seguito alle nuove indagini sul DNA sconosciuto trovato sotto le unghie di Chiara Poggi».

Andrea Sempio era già entrato nell’indagine e poi è stato prosciolto. Quali sono gli elementi a suo carico che si dovranno analizzare di nuovo?

«Durante le prime indagini per il delitto, fu sentito solo come persona informata dei fatti, essendo un grande amico del fratello di Chiara, Marco. All’epoca, presentò uno scontrino che lo collocava a Vigevano nell’orario dell’omicidio e la sua posizione non fu approfondita. Gli inquirenti, già concentrati su Stasi, non cercavano altri possibili colpevoli. Sono stati così trascurati elementi potenzialmente rilevanti: i capelli lunghi di Sempio, compatibili con quelli di un giovane visto nei pressi di casa Poggi; la sua bicicletta, simile a quella notata dalla testimone Franca Bermani vicino all’abitazione; tre brevi telefonate effettuate da Sempio a casa Poggi il giorno prima dell’omicidio, nonostante sapesse che il fratello di Chiara era partito in vacanza con i genitori e non fosse a Garlasco. Inoltre, un’analisi più scrupolosa degli orari dello scontrino non escludeva un suo possibile coinvolgimento. La svolta è arrivata dieci anni dopo quando la difesa di Stasi ha prelevato autonomamente campioni genetici di Sempio, seguendolo in un bar e recuperando il cucchiaino usato per il caffè. Il confronto con il DNA sconosciuto trovato sotto le unghie di Chiara mostrava, secondo i periti della difesa, compatibilità significative. Dopo una prima richiesta di revisione del processo, respinta dalla Corte d’Appello di Brescia, la Procura di Pavia in questi giorni ha deciso di iscrivere Sempio nel registro degli indagati. Tecniche forensi avanzate permetterebbero infatti una comparazione affidabile tra il DNA di Sempio e i campioni genetici trovati sotto le unghie della vittima, fino ad oggi dichiarati degradati e inutilizzabili. Va sottolineato che questo è un atto dovuto e non implica ancora prove concrete contro di lui; gli accertamenti sono in corso e Sempio è innocente fino a prova contraria».

La gente comune, poco avvezza ai meccanismi processuali, non rischia di restare disorientata di fronte a una serie di sentenze in netto contrasto tra di loro?

«La gente è spaventata. Il fatto è che la vera giustizia è di ispirazione divina e se non si creano occasioni per dialogare con essa non ci sarà mai giustizia sulla terra. Questo passa fondamentalmente attraverso l’etica: dei giudici, degli avvocati, dei giornalisti, dei telespettatori. Oggi in giro se ne vede poca, nella migliore delle ipotesi si confonde con la morale e i moralismi. In quello che i filosofi del passato chiamavano il mondo delle cause, l’errore è previsto e anche perdonato. Ma poi, dopo il perdono, l’errore va emendato. L’umanità compie da sempre un viaggio verso il perfezionamento. Come scrisse Thomas Edison, “non ho fallito, ho scoperto diecimila metodi che non funzionano.” Dunque, se in un processo c’è stato un errore, e nuovi metodi possono aiutare a correggerlo, è giusto farlo. E questo non riguarda solamente l’ambito giudiziario, passa anche per un giornalismo che si fa guardiano della sostenibilità della narrazione in atto e, laddove emerga una crepa, compia una meticolosa analisi degli elementi raccolti come prove e si preoccupi di rintracciare elementi alternativi eventualmente trascurati. Sono convinto che il lavoro del cronista investigativo sia un prezioso alleato nella ricerca della verità, che sempre è per tutti l’unica meta da raggiungere».





Dal sito Famiglia Cristiana

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