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Francesco, l’ansia di vivere il Vangelo

Per gentile concessione dell’editore, pubblichiamo l’articolo apparso su Vita e pensiero plus di Agostino Giovagnoli, ordinario di Storia contemporanea all’Università cattolica di Milano. 

di Agostino Giovagnoli

Nella commozione delle prime ore dopo la morte di papa Francesco si sono intrecciati tantissimi ricordi di questo papa: sulla stampa e sui social, in televisione e alla radio, nelle conversazioni private e nelle commemorazioni pubbliche… Sono davvero molti coloro che lo hanno ascoltato, visto, incontrato almeno una volta e tutti hanno ricevuto una forte impressione. Questo intreccio di ricordi è venuto dipingendo un affresco cui, di ora in ora, si aggiungono nuovi elementi, nuovi particolari, nuovi colori. Più netti appaiono i tratti che tornano con maggiore frequenza nel ricordo di molti: lo stile sincero e diretto, l’autenticità umana, il radicalismo evangelico… Nitide sono anche molte immagini spesso richiamate: l’amico dei poveri, il papa delle periferie, il predicatore di pace, il leader mondiale, il nemico di ogni ipocrisia… I colori forti dicono quanto vasto e profondo sia stato il segno lasciato da questo papa nel cuore di tanti. Aiutano invece a capire quanto ampia sia stata la gamma delle persone che Francesco ha raggiunte i colori meno brillanti, che stingono talvolta nel grigio della banalità, ai margini dell’affresco: è stato “una persona normale”, “sapeva parlare alla gente comune”, “incontrava tutti”…

Queste tante voci, nella loro varietà, sono essenziali per capire chi è stato Francesco. Gli “esperti” – a qualunque titolo si presumano tali – appaiono infatti in difficoltà. Faticano a identificare con sicurezza i tratti decisivi del suo pontificato. C’è chi pensa che se ha lasciato un segno importante nella vita di tanti, non altrettanto importante sia stato il segno da lui lasciato nella storia. Lo si confronta con Giovanni XXIII, la cui convocazione del Concilio fu un evento di indubbia rilevanza storica; con Paolo VI, il cui complesso progetto e il cui attento governo hanno guidato il difficile cammino della Chiesa post-conciliare; con Giovanni Paolo II, cui tutti riconoscono una capacità di visione globale e cui molti attribuiscono il merito di aver contribuito al crollo del Muro; con Benedetto XVI, teologo di grande statura… Rispetto ai suoi predecessori, dicono alcuni, Papa Francesco ha fatto di meno o lo ha fatto in modo meno compiuto.

In realtà, un senso di incompiutezza ha accompagnato anche la fine di altri pontificati: Giovanni XXIII vide solo l’inizio del Concilio, alla morte di Paolo VI la Chiesa sembrava molto divisa, i viaggi mancati a Mosca e a Pechino furono vissuti da Giovanni Paolo II come una ferita profonda, la rinuncia al ministero petrino ha fatto apparire quello di Benedetto XVI addirittura un pontificato interrotto. Tutti i pontificati sono – in una certa misura – incompiuti, perché la vita non si ferma mai, modifica le situazioni, suscita nuovi problemi… È vero un po’ per tutti i papi ciò che Francesco ha scelto consapevolmente di fare: aprire processi, più che portarli a compimento. È dunque sui processi che ha iniziato più che sui risultati raggiunti che occorre fermarsi a riflettere.

Tra questi c’è indubbiamente quello indicato dall’Evangelii gaudium, il documento programmatico di inizio pontificato. L’esortazione apostolica indicava con chiarezza la strada della “conversione pastorale e missionaria”, una prospettiva nuova e spiazzante, attraverso cui – si direbbe con le parole di San Paolo – ciò che nella Chiesa appariva “mortale” e cioè superato e caduco “venisse assorbito dalla vita”. Riletta oggi appare ancora un documento di grande freschezza, novità, originalità. Evangelii gaudium non fu accolta con l’attenzione che Francesco sperava: lo fece capire lui stesso rivolgendo ai vescovi italiani, due anni dopo, l’invito a leggerla. Ma molte prospettive, proposte e intuizioni di quel documento sono state progressivamente recepite. La centralità dei poveri nella vita della Chiesa è oggi entrata nel sentire comune di tanti credenti; cercare anzitutto l’“odore delle pecore” è un obiettivo che vescovi e sacerdoti si pongono più di prima; che il respingimento dei migranti sia uno scandalo incompatibile con il Vangelo è oggi molto più chiaro agli uomini e alle donne di Chiesa; non discriminare e non allontanare dal Vangelo chi è “diverso” per motivi etnico-nazionali, economico sociali o di genere, è praticato più di frequente nelle comunità ecclesiali… Forse è vero che le riforme istituzionali introdotte da Papa Francesco – struttura della Curia, gestione delle risorse economiche ecc. – non appaiono del tutto definite. Ma non è stato questo al centro della sua azione, ispirata soprattutto da un’ansia di vivere e far vivere il Vangelo che richiede, in primo luogo, un profondo cambiamento di mentalità. Ecco perché, prima di giudicare affrettatamente il pontificato di Francesco, conviene mettersi in attento ascolto di quel vasto popolo che ieri lo ha incontrato e che oggi ne piange la scomparsa.





Dal sito Famiglia Cristiana

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