Una storia fatta di lettere e incontri tra il Papa, pastore di tutti, e Denys Koliada, protestante, testimone delle atrocità della guerra. Un legame nato dalle critiche del ragazzo al Pontefice e proseguito attraverso un continuo scambio epistolare e 25 incontri a Santa Marta. “Soffriva per l’Ucraina, mi domandava della gente. Mi disse: gli ucraini hanno il diritto e il dovere di difendersi”
Salvatore Cernuzio – Città del Vaticano
Prima dell’incontro, c’è stato uno scontro. Prima delle circa 80 lettere di accompagnamento spirituale nel tempo della guerra, prima dei 25 incontri a Santa Marta, prima di stabilire un rapporto di figliolanza e di arrivare a un punto di confidenza tale dall’esclamare – dinanzi alle critiche ricevute in Ucraina per alcune sue espressioni – «non avete il diritto di dire che non amo l’Ucraina», tra Papa Francesco e Denys Koliada, 30 enne ucraino, c’è stato, appunto, uno scontro. È il giovane proveniente da Kaniv, piccola città sul Dnipro, a condividere con i media vaticani la sua testimonianza, in questi giorni di dolore per la morte del Papa in cui, dice, l’unica cosa che desidera è rendere omaggio a colui che è stato padre e guida nel momento più buio per il suo Paese.
Quando è iniziata l’invasione su vasta scala in Ucraina, ho fatto avere a Papa Francesco delle lettere scritte dai bambini, tramite un pastore argentino, Alejandro, suo vecchio amico di Buenos Aires. Parole di paura, di perdita, di preghiere per la pace… Poco dopo ho sentito alcune affermazioni del Papa sulla guerra. Mi hanno ferito. Non perché lui volesse ferire, ma perché noi, in Ucraina, vivevamo nell’epicentro del dolore. E a volte anche una parola buona, se non contestualizzata, può tagliare come un coltello. Gli ho scritto una lettera onesta, anche dura che si concludeva così: “L’Ucraina ha per Lei la domanda di Pietro: Simone di Giovanni, mi ami?”. Non mi aspettavo una risposta. Non ci speravo. Chi ha bisogno di un’altra voce da un Paese in cui tutti gridano? Ma già il giorno dopo il Papa mi ha risposto. Semplicemente, senza diplomazia: “Vieni. Voglio che sia tu a raccontarmelo di persona. Ho bisogno di ascoltarlo da te”
Il diritto e il dovere di difendersi
E a Santa Marta ci è andato davvero Denys, figlio di una famiglia protestante, ex studente della Università Cattolica ucraina. Ci è andato non senza un iniziale timore ma anche con la curiosità di conoscere quel Papa che comunque gli è sempre sembrato «un pastore che non ha mai avuto paura di ascoltare anche chi gli si avvicinava con dolore e accuse».
Così è iniziata la nostra storia. Non è stata un’udienza bensì l’incontro tra una ferita e un cuore che cercavano il dialogo. Quel giorno sono arrivato con un piccolo gruppo: io, il mio maestro Myroslav Marynovych (ex prigioniero politico del Gulag), il pastore Alejandro e alcuni amici. Non portavamo con noi nulla, se non la speranza di essere ascoltati. E il Papa ci ha accolti e ci ha dedicato un’ora e mezza. Ma la cosa più significativa non era il tempo, era il modo in cui ascoltava. Senza difendersi. Senza giustificarsi. Ascoltava, chinandosi in avanti, ricordando i nomi, facendo domande, chiedendo chiarimenti. Ci ha parlato di un suo maestro, il beato Vladyka Chmil, sacerdote ucraino morto in un campo di concentramento perché non ha rinunciato a essere pastore per tutti, anche per i nemici. E in quell’occasione ha pronunciato una frase semplice, ma per me molto importante: “Gli ucraini non hanno solo il diritto, ma anche il dovere di difendersi. Perché chi non si difende, si avvicina al suicidio”
La preoccupazione per soldati, prigionieri, vedove, bambini
Con il giovane Denys, rinominato scherzosamente da Francesco «protestante uniate», la storia è proseguita anche dopo quell’udienza. «Dammi il tuo indirizzo. Ti scriverò io», gli ha assicurato il Papa. Da lì una serie di lettere, circa 80, che il ragazzo custodisce a casa e che al momento reputa un tesoro personale.
Gli raccontavo quello che accadeva al fronte, condividevo le storie dei soldati, dei prigionieri, dei cappellani, delle vedove, dei bambini. E lui… ricordava. Ricordava i nomi. Chiedeva di loro. In una delle lettere mi ha scritto: “Come sta Gennadij?” (cappellano militare ucraino). E sua moglie come si sente? E quei bambini? Sono tutti vivi dopo i bombardamenti?”
Portare la croce
Oltre alle lettere tra Francesco e questo «caro ragazzo», come lo definiva, gli incontri in Vaticano sono stati 25. Mai resi pubblici, avvenuti solo per ascoltarsi reciprocamente: la storia di Denys e le storie di un popolo in guerra che lui gli riportava, le parole del pastore padre di tutti. «Una presenza vera, silenziosa, ostinata».
Quando ero colmo di rabbia – la rabbia di chi vede morire ogni giorno dei bambini, di chi vede case distrutte, la speranza spezzata – gli scrivevo. E non sempre con moderazione, a volte con durezza e disperazione. Rispondeva sempre: “Non portare la tua croce da solo. Anche Cristo ha avuto bisogno di Simone”, mi ha ripetuto più volte. Come se sapesse che sarei caduto ancora, che avrei voluto abbandonare questo campo di dolore. E in quelle parole trovavo la forza di restare. Ricordo bene una delle nostre conversazioni. Vedevo quanto fosse stanco. Allora gli ho suggerito: “Caro Padre, non porti la sua croce da solo. La croce porta anche il peso della solidarietà con il gregge”
“Sono un peccatore, ma non avete il diritto di dire che non amo l’Ucraina”
C’è un’altra frase che Denys Koliada non dimenticherà mai. Era un momento in cui in Ucraina molti hanno criticato duramente Papa Francesco per alcune sue dichiarazioni. L’ho incontrato e gli ho detto: «Molti in Ucraina sono feriti. Molti dicono che non ci amate». Con semplicità, mi ha risposto:
Non potevo tacere di fronte al fatto che la guerra è un male. E che le parole sulla pace, se non spiegate bene, possono suonare come un’offesa per chi sta morendo. Sono andato a quell’incontro come uomo che soffriva. Gli ho detto: “Santità, anche una buona parola può diventare una ferita, se non viene spiegata a chi grida dal dolore. Anche la migliore delle intenzioni ha bisogno di chiarezza, quando si parla della guerra”. Lui mi ha guardato negli occhi e ha replicato: “Grazie per avermelo detto. Forse ho sbagliato. Se necessario, torna ancora. Parliamone di nuovo. Voglio capire”
Il dolore per le crudeltà verso la gente
A volte è stato il Papa stesso a prendere l’iniziativa e contattare il ragazzo. Lo ha fatto quando ha visto le immagini delle torture subite dai soldati ucraini. «È orribile. Questa è la vostra Via Crucis… Ma voi non siete solo testimoni del sacrificio. Siete testimoni della Risurrezione», ha scritto una volta. «Sapeva bene cosa stava accadendo. E ne soffriva profondamente», dice Denys.
La crudeltà non lo ha mai reso duro. Al contrario, è rimasto mite, capace di ascoltare, di ricordare, di pregare per persone che forse non avrebbe mai incontrato. E credo che proprio in questo sia stata la sua vera risposta alla guerra: non con le giustificazioni, non con la teoria, ma con una compassione che non si arrende. Con un amore che non ha paura di stare accanto alle ferite. Ho visto un uomo che cercava davvero di essere vicino. E ho visto pure come spesso, in modo crudele e deliberato, le sue parole venissero estrapolate dal contesto. Di come si costruisse l’immagine di un Pontefice indifferente, senza ascoltare ciò che realmente diceva
Le opere buone nel silenzio
Il Papa non ha fatto mancare il suo sostegno anche materiale a vedove, orfani, ex prigionieri, feriti. «Io gli dicevo: “Forse dovremmo raccontare queste cose, farlo sapere alla gente”. E lui sorrideva e rispondeva: “Le opere buone hanno bisogno del silenzio”».
Non restava a livello solo di appelli dichiarazioni, gli stavano a cuore le persone concrete. I volti. Le storie. Le donne che avevano perso il marito. I bambini senza padre. Coloro che erano tornati dal carcere. Ho visto spesso la commozione mentre gli raccontavo storie di guerra. Ma anche la speranza nei suoi occhi quando parlavo del coraggio dei volontari, dei medici, dei soldati che, nonostante tutto, non avevano perso la loro umanità
Qualcuno che sapeva ascoltare
È questa l’immagine che resta a Denys ora che Papa Francesco non c’è più: «Mi sento come un orfano», confida, «come qualcuno che ha perso un amico che non aveva paura delle mie lacrime, della mia rabbia, delle mie domande. Sto ripensando spesso alle sue lettere, alla raccomandazione: “Prego per te. Prega anche tu per me”. E ogni tanto prendo istintivamente in mano il telefono per scrivergli come facevo sempre quando il dolore era forte. Ma questa volta non ci sarà risposta».
Mi manca. Tanto. Eppure, insieme a questo dolore, sento una profonda gratitudine. Gratitudine per aver avuto qualcuno che sapeva ascoltare, che mi restava vicino anche quando non aveva risposte da darmi