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Ecco perchè l’Italia è la cenerentola dei salari

Se l’Italia è il Paese del G20 dove i salari reali hanno subito la più forte perdita di potere d’acquisto dal 2008 a oggi (con una perdita dell’8,7 per cento) la domanda da farsi non è perché, ma come abbiamo fatto a ridurci così. Nel frattempo, mentre noi versiamo lacrime sui nostri cedolini (per chi ce l’ha) nello stesso periodo – sempre secondo il rapporto dell’Organizzazione internazionale del lavoro (Oil) – in Francia c’è stato un aumento di circa il 5 per cento, in Germania di quasi il 15. Loro salgono, noi scendiamo.

Stiamo parlando di salari reali, dunque di stipendi depurati dall’inflazione. E l’inflazione è definita “tassa dei poveri” perché è lineare e morde soprattutto chi dispone di un basso reddito: camerieri, lavapiatti, badanti, colf, baby sitter, braccianti, addetti alla logistica e al facchinaggio, commesse e cassiere dei supermercati, guardie giurate, vigilantes e via scendendo. Sono loro i primi a sentire la morsa dei prezzi che lievitano come il pane (che nel frattempo costa il doppio). Spesso con orari lunghissimi e contratti precari che scadono prima del latte fresco, come quelli di somministrazione gestiti dalle agenzie per il lavoro – nella nostra provincia in fortissima riduzione, i primi a saltar come tappi.

Ma naturalmente ci sono altre cause, a cominciare dalla bassa produttività, gli scarsi investimenti in ricerca e sviluppo o nella formazione e riqualificazione dei dipendenti. Anche se il rapporto dell’Oil ci informa che essendo la produttività nei Paesi del G20 cresciuta più dei salari, ci sarebbero le potenzialità per riprendere il passo.

Ad aggravare le cose c’è il fatto che l’export italiano per essere competitivo nel mondo ha sempre tenuto bassi i salari, anziché aumentare la produttività, come ad esempio ha sempre fatto la Germania (anche se i tedeschi ultimamente se la passano malucio, pensiamo all’industria manifatturiera dell’automotive). In Italia i salari bassi insomma sono stati consapevolmente tenuti bassi per favorire le esportazioni. Invece di puntare sulla qualità, noi ribassavamo tutto, anche le pretese. Chi ha lasciato marcire questa situazione? Un po’ tutti. A cominciare da imprenditori e sindacati, dato che i contratti nazionali (che un tempo facevano tremare i tavoli ministeriali) e quelli aziendali non sono stati nemmeno in grado di mantenere i salari in linea con gli aumenti dei prezzi. Siamo passati dalla scala mobile degli anni ‘70 alla contrattazione a scartamento ridotto, incapace di proteggere i lavoratori dipendenti, nemmeno quelli più precari. Il modello stesso della contrattazione nazionale appare inadeguato, perché non tiene nemmeno conto dell’impennata dei prezzi energetici, demandandola a volte alla contrattazione di secondo livello, che però spesso è inadeguata o viene a mancare del tutto.
Questa situazione farebbe propendere per un innalzamento dei salari per legge, ma come sappiamo i sindacati si mettono per traverso poiché vogliono che gli aumenti salariali siano materia delle parti sociali. Con i risultati cui assistiamo: stipendi fermi, bollette in orbita, famiglie in apnea. A completare il quadro sono le forti diseguaglianze tra lavoratori, per esempio tra italiani e stranieri, oppure tra uomini e donne o anche tra giovani e anziani. Le dipendenti ad esempio non solo lavorano meno ore (ricorrendo spesso al part-time, perché lo Stato non le mette in condizioni di poter accudire i propri figli in modo adeguato), ma sono anche meno retribuite a parità di ore rispetto ai dipendenti maschi. E spesso sono costrette a scegliere tra lavoro e famiglia, tra pannolino e badge. Un “trade off”, una scelta che non dovrebbe esistere, come ha detto recentemente anche il capo dello Stato Sergio Mattarella. Eppure esiste, eccome se esiste.

Il quadro finale è quello di un’Azienda Italia da rifare, con una dinamica salariale negativa, certamente diseguale, arcigna e poco evoluta. Un’ Azienda Italia che ha smesso di credere nel lavoro come strumento di emancipazione, trasformandolo spesso e malvolentieri in un esercizio di sopravvivenza. Ma c’è ancora tempo per rimediare

 

 





Dal sito Famiglia Cristiana

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