C’è ancora domani di Paola Cortellesi ha raccontato il patriarcato a noi uomini e donne del terzo millennio. Ma l’ha raccontato soprattutto ai nostri figli. Il suo enorme successo nelle sale è stato decretato non solo dal pubblico adulto, ma anche da quello composto dai nostri figli e figlie. Loro non sapevano che le donne delle generazioni che ci hanno preceduto – o almeno una parte di quelle donne – hanno vissuto ciò che Paola Cortellesi racconta attraverso la storia di Delia, una donna sposata a Ivano, un uomo che manipola, controlla, comanda in famiglia avendo come pretesto solo il suo “essere maschio”. E’ da lì che proveniamo. L’uomo, nato maschio, ha esercitato un potere in famiglia che non era un poter “per” o un potere “con”, ma solo e soltanto un potere “su”.
L’adulto in famiglia ha potere in quanto adulto, ma quel potere dovrebbe essere declinato solo e soltanto in funzione di affetto e protezione. Il potere “per” e il potere “con” è un potere di “servizio” e non di rango. Il patriarcato trova inscritto nel ruolo di genere maschile un potere “su”. È un potere che fa male, perché limita, confina, umilia ed esercita violenza, sia sul piano fisico che emotivo.
Da sempre, gli uomini di quel potere sono stati protagonisti, portatori e lo hanno tramandato di generazione in generazione. È stato il femminismo a mettere in discussione, prima, e poi in profonda crisi il ruolo dell’uomo in famiglia e nella società e di questo noi uomini dobbiamo essere grati, perché comprendere che le relazioni uomo e donna non sono luoghi di controllo e potere, di violenza e manipolazione è la trasformazione più evolutiva che ci è stato possibile compiere e che ci ha permesso di imparare a interrogarci sulle questioni di genere, cosa mai accaduta agli uomini delle generazioni che ci hanno preceduto.
Oggi, prevenire la violenza di genere comporta affrontare il tema del patriarcato così come quello dell’educazione alle emozioni, agli affetti e ai sentimenti. Comporta saper costruire un’intimità sana dentro le storie amorose che non ha bisogno di chiedere prova all’altro e controllo sull’altro dell’amore condiviso, perché già solo pensare che l’amore debba dare prova significa trasformarlo in un territorio estremamente pericoloso oltre che fragile. In questo momento, nella nostra società ci sono sottogruppi che hanno compreso questa lezione e che stanno promuovendo il cambiamento dei ruoli di genere in una prospettiva di equità, pari opportunità ed eliminazione della violenza di genere. Ma la strada è ancora lunga. E la nostra società multietnica include famiglie le cui donne, per etnia e cultura si trovano ancora, in questo momento, nella stessa posizione di Delia del film di Paola Cortellesi.
Per alcune culture, il patriarcato è ancora una questione viva che porta gli uomini a riconoscersi in quel modello per aderire ad un ruolo di genere che non hanno saputo trasformare e far evolvere. Rispetto, diritto all’autodeterminazione e non violenza devono essere un diritto di tutti e tutte e un dovere di tutti e tutte, senza distinzione di genere. Ma questo traguardo è ancora molto lontano.
Il discorso del Ministro Valditara fatto in occasione dell’inaugurazione della Fondazione in memoria di Giulia Cecchettin, è stato giustamente criticato e contestato perché non veritiero e fuori dal tempo. Negare il patriarcato e parlare di “migrazioni” non ha senso, perché ciò che serve su questo tema è parlare di cultura. E il patriarcato appartiene alla cultura. Forse oggi, appartiene meno alla nostra cultura e più ad altre culture di diversa provenienza etnica. Il discorso di Valditara è sbagliato perché dice alcune verità, ma non sa includerle in una visione integrata del problema e perciò le singole affermazioni risultano slegate fra loro e nel loro complesso divisive.
Su un tema così importante e complesso, si deve avere la delicatezza di dire poche cose dentro ad una visione del problema che non nega la storia e la cultura da cui veniamo, di cui i ruoli di genere continuano ad essere espressione nella loro evoluzione, ma anche nella loro fatica al cambiamento e alla trasformazione.
E anche in questa occasione, le parole di Gino Cecchettin, un padre che ha scritto nello sguardo e sulla pelle il dolore associato ad una cultura che dobbiamo cambiare tutti insieme e di cui lui vuole essere promotore e testimone, sembrano essere infinitamente più avanti di quelle del Ministro che di quel cambiamento culturale deve essere fautore e facilitatore, segnando una distanza – che sembra siderale – tra mondo reale e mondo politico.