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Davide Enia al Piccolo, la quotidianità ferita di Palermo negli anni delle stragi di mafia

19 luglio 1992, Palermo. In via D’Amelio, Davide Enia è al telefono con una compagna di classe. Attendono l’esito dell’esame di maturità appena svolto. Nella calura estiva di Palermo, tutto è immobile.

«Nel regno dei discorsi incompiuti», le telefonate si interrompono col rumore sordo di una bomba. Affacciandosi alla finestra, Enia vede gli ultimi brandelli di quella guerra sanguinaria iniziata il 23 maggio precedente con la strage di Capaci. I genitori di Enia sono lontani, a Livigno. Appena sentita la notizia gracchiante alla radio, provano a chiamarlo, ma tutte le linee per Palermo sono saltate.

In un bar lì vicino, la morte del magistrato Paolo Borsellino corre di bocca in bocca, fino a trasformarsi in una sentenza definitiva: «Sti siciliani dovrebbero morire tutti».

Sul palco del Piccolo Teatro Grassi di Milano, fermo al centro della scena sotto un occhio di bue spietato, Enia racconta una ferita che, a distanza di trentatré anni, continua a sanguinare e a imbrattare la storia italiana. Quelle giornate riaffiorano con violenza, soprattutto quando non vengono commemorate dai pulpiti delle alte cariche dello Stato, ma raccontate da chi, quel giorno, ha visto le foglie degli alberi cadere in piena estate sulle macerie del palazzo di via D’Amelio, dei cinque agenti della scorta e di Paolo Borsellino.

È anche la storia di padre Pino Puglisi, non l’eroe e il martire nazionale, ma l’insegnante di religione di centinaia di ragazzi del liceo Vittorio Emanuele II. O dei morti ammazzati in strada, trovati per caso da un bambino di ritorno da scuola, riversi nei cunicoli palermitani.

L’esotismo ammaliante di quel mondo apparentemente lontano, governato da regole proprie e cristallizzato nel tempo, viene evocato dalle abbanniàte, le grida del mercato di Ballarò, con cui Enia e Giulio Barrocchieri riempiono la sala.

Gli spettatori, confusi e affascinati, cercano di decifrarne il senso. Sembra di assistere al dispiegarsi di una ritualità segreta, in cui si possono solo sbirciare gesti e parole codificate, movimenti densi, sguardi assorti.

Quando Enia si addentra nei sotterfugi, nelle minacce, nelle strategie stragiste discusse nelle case dei boss di Cosa Nostra, nei bunker segreti costruiti per nascondere i figli dei collaboratori di giustizia, le luci di Paolo Casati si fanno ancora più intense. E quando i fari si spengono, la sagoma evanescente di Enia resta impressa nella retina.

Autoritratto è di una potenza struggente ed evocativa, capace di demolire le mura granitiche del tempo e ricostruirle con racconti di storie semplici, quotidiane. Storie di persone che vivevano a Palermo negli anni Novanta, all’ombra di uno dei più grandi omicidi politici della storia italiana.

L’arazzo intessuto si dipana davanti agli occhi degli spettatori, rivelando verità taciute e nascoste, prospettive inedite che restituiscono tutta l’umanità commossa di fronte all’efferatezza disumana della mafia. «Bisogna nominare le cose», dice Enia in tono sommesso. Bisogna nominarle per restituire loro uno spessore umano, per ricordare che quella ferocia non appartiene alle bestie, ma a persone reali, «persone trasformate in vampiri assetati di sangue».

È il ritratto di un’intera generazione: un popolo cresciuto tra la sterpaglia di Cosa Nostra, abituato a muoversi nella fitta rete di violenza e terrore intessuta nella trama metropolitana di Palermo.

Il monologo, arricchito e commentato musicalmente da Giulio Barrocchieri, sarà in scena al Piccolo Teatro Grassi fino al 17 aprile.





Dal sito Famiglia Cristiana

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