Venticinque anni di «Non esistono ragazzi cattivi. Venticinque anni di cadute e di ripartenze. Venticinque anni di speranze accese e di silenzi carichi di attesa. Venticinque anni di ascolto, di tempo dedicato, senza mai arrendersi. Venticinque anni di Kayròs: il tempo giusto per ricominciare», dice con lo sguardo che entra nelle pieghe dei ricordi don Claudio Burgio, cappellano del carcere minorile Beccaria di Milano e fondatore della comunità Kayros.
Ma come si misura un tempo opportuno? Nei sorrisi riconquistati, nei gesti di fiducia, nelle sconfitte affrontate a testa alta. Nelle mille attività proposte come spiragli di possibilità: una sala di registrazione musicale, una gita allo zoo, lo sport come disciplina di crescita, la messa in scena di uno spettacolo teatrale. Strade diverse per un unico obiettivo: offrire ai ragazzi una nuova opportunità.
«Aver camminato 25 anni insieme a questi ragazzi ha fatto crescere anche noi. Siamo diventati un punto di riferimento, ma con discrezione e umiltà, perché entrare nel cuore di questi ragazzi è difficile. Ogni storia, anche quella più sbagliata, è sacra. L’abbiamo sempre vissuta così», racconta don Claudio.

La comunità è nata quasi per caso, da un’esperienza di accoglienza in un oratorio di Vimodrone, nell’hinterland milanese. «Accogliemmo il primo ragazzo, un minore straniero non accompagnato proveniente dal Camerun. Le famiglie della parrocchia si offrirono di ospitarlo a turno nelle loro case. Da quell’accoglienza informale è nata la necessità di strutturare un luogo, una casa vera e propria. Così è iniziata l’avventura, grazie anche al supporto di tante persone, professionisti, volontari, amici».
Oggi, a distanza di 25 anni, le storie dei ragazzi di Kayros si intrecciano con quelle di chi, come don Burgio, ha scelto di dedicare loro tempo e speranza. «Le mode cambiano, le narrazioni pure, ma il cuore dell’uomo è sempre lo stesso. Nei ragazzi c’è sempre un grande desiderio di vita, spesso frenato da tanti fattori, da storie dolorose. Ma la speranza di un futuro migliore è il motore che ci ha guidato in tutti questi anni».

@credit foto: Gianmarco Maraviglia
Il carcere non è la soluzione
Nel carcere minorile Beccaria don Burgio incontra quotidianamente ragazzi di ogni provenienza e situazione. «In carcere almeno l’80 per cento dei detenuti sono minori stranieri non accompagnati, soprattutto nordafricani. Arrivano senza un progetto, scappano da situazioni difficili, trasgrediscono per contenere la rabbia e per fare soldi facili. L’altro 20 per cento sono ragazzi italiani o di seconda e terza generazione, detenuti per reati più gravi. Sono spesso soli, isolati, a rischio di gesti estremi, tormentati dai sensi di colpa».

Don Claudio Burgio con Daniel Zaccaro, oggi educatore della comunità Kayròs dopo esserne stato ospite
Ma il carcere non è una risposta efficace. «Non ho mai visto un giovane cambiare solo grazie a una cella o a una misura restrittiva. Il vero motore che tiene accesa la speranza è la società fuori. Se il carcere rimane un microcosmo chiuso, non c’è redenzione. Quando invece un ragazzo trova nel mondo del lavoro e nella società civile reali opportunità, può cambiare davvero».
Don Claudio insiste sulla necessità di un approccio diverso: «Dobbiamo assumerci le nostre responsabilità come comunità adulta. Una società non è più sicura se quei ragazzi rimangono dentro. È sicura se riusciamo a recuperarli e a reinserirli. Il carcere da solo produce solo malessere e violenza. Anche il miglior carcere possibile resta un contesto di estrema sofferenza».
Non si tratta di buonismo: «Non significa essere indulgenti, ma rimanere in dialogo con il mondo del carcere. Capire da dove nascono la violenza e il disagio giovanile è un passaggio fondamentale. In alcuni quartieri le disuguaglianze sono esponenziali: è necessario comprendere queste radici per migliorare la qualità della vita di tutti».

I ragazzi raccontano che nelle comunità, ma soprattutto nelle carceri, i tempi della giustizia sono sempre lunghi: «Due anni a 17-18 anni non sono gli stessi due anni di un adulto, sono da 55 a 57. Inoltre, la violenza e l’uso di sostanze per tenerli più tranquilli ostacolano il recupero». Con la sua visione, c’è qualcosa che dall’interno, dalla comunità, può cambiare questa situazione? «Certamente dentro il carcere chi è dentro si fa tante domande, però non è un contesto che apre una vera riflessione. Anche perché le figure educative sono davvero limitate, quindi il confronto avviene più tra detenuti che con educatori. Il vero motore che tiene accesa la speranza è la società fuori. Se il carcere diventa un microcosmo chiuso, impermeabile, non c’è redenzione, non c’è possibilità di cambiamento. Quando invece una persona trova nella società civile, nel mondo del lavoro, delle reali, concrete opportunità, allora si può finalmente svoltare».

@credit foto: Gianmarco Maraviglia
Kayros: un’opportunità di riscatto
«A Kayros cerchiamo di garantire ai ragazzi momenti di svago e di riflessione, attraverso lo sport, la musica e gli incontri. Queste opportunità riducono l’ansia, ma la comunità non è un giardino d’infanzia: anche qui esistono logiche di prevaricazione». Il percorso di crescita non segue i tempi della giustizia. «Ho visto ragazzi cambiare in dieci anni, magari passando due o tre volte dal carcere. Ma serve tempo».
Tempo che in carcere scorre diversamente. «Dentro il carcere i ragazzi si pongono domande, ma spesso manca un vero confronto. Gli educatori sono pochi e i detenuti si confrontano più tra loro che con figure di riferimento».
Un elemento cruciale sarebbe l’introduzione di una figura religiosa di riferimento per i giovani musulmani: «La stragrande maggioranza dei detenuti è di fede islamica. Chiedo da tempo che un imam affianchi il mio lavoro, perché la ricerca di senso passa anche attraverso la fede. Al momento c’è solo un volontario, ma una figura stabile sarebbe fondamentale».

@credit foto: Gianmarco Maraviglia
Una mostra per raccontare 25 anni di storie
Per celebrare questo traguardo è stata realizzata la mostra fotografica «Spavaldi e fragili», curata da Chiara Oggioni Tiepolo e con le fotografie di Gianmarco Maraviglia.
«Maraviglia ha trascorso tempo con i ragazzi della comunità. Quello che serve per non essere più un estraneo, il tempo necessario per diventare parte del gruppo. Ha raccontato un’idea, una filosofia, un pensiero per immagini. Non solo ritratti, ma suggestioni, rimandi. La luce è protagonista, quasi come fosse una persona, eterea ma presente». «Le persone non sempre si vedono chiaramente, per sottolineare che qui il singolo ha un valore universale. Non c’è giudizio, né un racconto edulcorato».
La mostra rimarrà aperta fino al 27 giugno all’AEMuseum e l’area espositiva potrà essere visitata in autonomia nei giorni e negli orari di apertura della sede di Fondazione AEM (da lunedì a giovedì dalle ore 9.00 alle 17.30 e venerdì dalle ore 9.00 alle 13.00