di don Virginio Colmegna
Nel celebrare il Giubileo della Salute Mentale, abbiamo l’occasione di guardare con maggiore consapevolezza un tema che ci tocca da vicino. La salute mentale non è un settore a parte della medicina, né può essere ridotta a una questione di diagnosi. È salute e come tale ci riguarda nella nostra interezza di persone, non di pazienti.
L’intuizione di Franco Basaglia – secondo cui la persona non si identifica con la sua malattia – resta un richiamo attuale. Troppo spesso, invece, si continua a parlare della malattia, perdendo di vista chi vive la sofferenza. È anche per questo che la battaglia contro lo stigma resta aperta e difficile. Molte famiglie si ritrovano da sole, costrette a farsi carico di situazioni complesse, oppure affidate a istituzioni lontane dal proprio territorio. I servizi diventano così luoghi separati, e si moltiplicano le distanze fisiche, relazionali e sociali.
Nel frattempo, una società sempre più attraversata dalla paura e dalla violenza rischia di trasformare ogni fragilità in un problema da isolare. Il disagio psichico viene “psichiatrizzato” per essere neutralizzato, reso invisibile, rimosso. Ma così facendo, si rinuncia a guardare in faccia una realtà che invece ha a che fare con ognuno di noi.
Lo aveva intuito il cardinale Carlo Maria Martini, parlando di “cittadinanza terapeutica” e facendo riferimento al brano evangelico dell’indemoniato di Gerasa. Ogni percorso di guarigione, per essere autentico, deve partire dal riconoscimento della persona come parte della comunità. Serve una rete di relazioni affettive, non solo strutture. La parola “comunità” non può restare a indicare un luogo che ospita persone: deve incarnare legami e responsabilità condivisa.
Nella società frammentata di oggi, servono dinamiche nuove: tutor, affidi, accompagnamenti, ascolto dei caregiver. Ma perché queste esperienze si moltiplichino, occorre che vinca una cultura capace di rompere l’individualismo esasperato. Non è questione di gesti di bontà, ma di costruzione collettiva di futuro. Vale la pena ricordarlo proprio oggi, quando tante famiglie si chiedono con angoscia: «Quando non ci sarò più, chi si prenderà cura di mio figlio disabile?». Servono nuove figure professionali, serve un entusiasmo rinnovato della società civile, servono una narrazione e un linguaggio diversi, che sappiano umanizzare, avvicinare. Non si tratta solo di premiare o portare sul palco progetti virtuosi, ma di riconoscere la fatica quotidiana, concreta, che sta dietro a ogni esperienza vera di accoglienza e cura.
Papa Francesco ci mostra con la sua testimonianza una via possibile: mettere al centro non la sofferenza, ma la persona, promuovere una cultura della prossimità, riconoscere nella fragilità non un difetto, ma un luogo generativo. Il Vangelo è pieno di episodi in cui la sofferenza si intreccia con la guarigione, non per miracolo improvviso, ma perché qualcuno si è fermato, ha ascoltato, ha avuto cura. Oggi più che mai vale la pena impegnarsi per restituire questa possibilità a ogni persona che soffre.