Gli occhi, verdi come le foglie dell’agave, esprimono la gamma intera delle emozioni e la voglia di vita caparbia di certe piante del deserto che, in Sicilia, sbucano, improbabili, dalle fessure dei muri assolati. Sembra impossibile, eppure resistono. Margherita Asta è come loro. Aveva 10 anni il 2 aprile del 1985. Doveva essere sull’auto che portava a scuola la sua mamma e i gemellini di 6 anni. Ha preso al volo un passaggio dalla madre dell’amica. Si è salvata così. Barbara Rizzo, Giuseppe e Salvatore sono saltati in aria sulla strada tra Trapani e Pizzolungo. Uno sbaglio di Cosa Nostra, che mirava al giudice Carlo Palermo, mentre la sua auto sorpassava la loro. Loro morti al posto suo, lui vivo al posto loro e Margherita sopravvissuta a tutto, nel groviglio dei destini incrociati.
Ci sono voluti trent’anni, per elaborare la storia, fino a darle forma scritta nel libro, bellissimo, Sola con te in un futuro aprile. C’è voluta la fiducia in una penna amica, quella di Michela Gargiulo: «È riuscita a trasformare in racconto i miei ricordi, incastonando la storia di Barbara, Giuseppe e Salvatore nella storia d’Italia di quegli anni, con un gran lavoro di ricerca». Raccontare costa: «Emotivamente è faticoso, è rivivere ogni volta. Ma è stato anche un modo di ritrovare ricordi che avevo chiuso in uno scrigno interiore, per paura di perdere anche quelli: l’unica cosa che mi restava di mia mamma e dei miei fratelli. È venuto fuori tutto a pezzi, pezzi che, se mi guardo oggi, mi fanno pensare all’antica tecnica che usano i giapponesi per restaurare i vasi rotti saldandoli con l’oro».
Niente è più come prima, i pezzi restano, si vedono, ma i cocci tornano vasi, più preziosi di prima. «Mio marito», sant’Enrico lo chiama, ridendo, «sai che pazienza ci vuole con una testona come me, si arrabbia se mi sente dire che sono viva per ricordare, ma questo dovere me lo sento. Se non lo faccio io, chi lo fa? Le vittime qualunque si ricordano molto meno di quelle istituzionali. Ma è vero che, sui pezzi e sull’oro dell’amore, che nonostante tutto non mi è mancato attorno, ho costruito la persona che sono».
Una persona che emana grande forza, anche se non nega fin dagli occhi, che si velano ogni tanto, la fatica di mettere a tacere le fragilità di fondo: «Non so da dove mi arrivi questo carattere, ma immagino che senza quel 2 aprile non sarei quella che sono. Un po’ la forza l’ho cercata, cercando la verità a fondo fino a voler vedere le foto del niente che era rimasto di quei tre innocenti. Sono stata male per una settimana, dopo». Sembra impossibile, ma la storia che Margherita racconta è intrisa di gratitudine per la vita, persino più che di rabbia per la morte. C’è la rabbia di aver vissuto una violenza ingiusta, di sapere soltanto una verità parziale, ma è una rabbia sana che non acceca, che non ha azzerato la fiducia nelle persone: «Non è stato facile tornare ad amare. Mi è un po’ mancato il non aver mai davvero parlato con mio padre di quanto ci era accaduto, ma sentivo che non era una sua mancanza, solo la fatica troppo grande di incontrare tutte insieme le nostre macerie, le sue e le mie. Gli sono stata subito grata di avermi messo attorno molto presto una normalità e una famiglia. È stato molto criticato, volgarmente, per aver sposato Antonina appena un anno dopo. Non ho mai condiviso quelle critiche, Antonina è entrata nella mia vita con garbo e non ha mai cercato di sostituire nulla, ha solo aggiunto un amore disinteressato. E così è stato per Giuseppe Salvatore, il fratellino che mi hanno dato, cui ho subito voluto bene».
Margherita racconta nella sua casa di Parma, dove abita con Enrico, sposato nel 2011, «un regalo di mia mamma, non l’avrei incontrato senza l’impegno con Libera». Una casa resa solare dai muri giallo oro: «Mi manca il sole della Sicilia, le pareti non bastano. Ma sto bene qui». I ricordi però sono là, nella casa di Pizzolungo.
Ma quella di Margherita è metà della storia. L’altra metà riguarda il giudice Carlo Palermo ed è, per lei, storia di un incontro a lungo cercato: «All’inizio, nella mia mente bambina l’ho considerato colpevole del mio dolore. Ma dai ritagli dei giornali, in cui cercavo risposte, ho capito presto che siamo stati vittime della stessa violenza. Ci sono voluti anni e tentativi perché riuscissi a incontrarlo, quando è accaduto, di recente, con l’aiuto di don Ciotti (che ha accompagnato Margherita anche all’altare il giorno del matrimonio al posto del padre mancato nel 1993, ndr), ho avvertito la sua enorme solitudine. Io spero che l’aver trovato la forza di raccontare la mia parte – che è storia della mia famiglia quanto storia di questo Paese – possa aiutare in qualche modo Carlo Palermo, che quel 2 aprile ha perso il lavoro di allora, la famiglia, la salute, a sentire più leggero il peso della sua parte». Solo così, forse, l’ultimo coccio di anima, di vita, di verità, potrà tornare al suo posto.
FC · IN ITALIA E NEL MONDO N°26 · 2015