di Lorenzo Rossi
In Francia, Gérald Darmanin, tornato al governo come ministro della Giustizia, ha rapidamente occupato il centro della scena con una proposta ambiziosa: creare carceri «a misura d’uomo», distribuite su tutto il territorio. Un progetto che, almeno sulla carta, suona come una soluzione al cronico sovraffollamento delle prigioni francesi. Mercoledì 25 dicembre, durante una visita al centro penitenziario di Liancourt, nel dipartimento dell’Oise, Darmanin ha delineato la sua visione: piccole strutture dedicate alle «piccole pene», meno rigide nei criteri di sicurezza ma più adatte a gestire il sovraffollamento.
Ma questa idea è davvero rivoluzionaria? Non proprio. Jean-François Fogliarino, segretario generale del Sindacato nazionale dei direttori penitenziari, ha sottolineato che «l’idea non è nuova». Già Didier Migaud, il predecessore di Darmanin, aveva ventilato la possibilità di centri penitenziari più piccoli, con un modello differenziato rispetto alle tradizionali prigioni. Eppure, la storia recente della politica penitenziaria francese insegna che, più delle parole, contano i fatti.
Un sistema al limite del collasso
I numeri del sistema carcerario francese sono impietosi: 80.000 detenuti a novembre, contro una capacità di 62.000 posti. Un record che evidenzia la crisi di un modello non più sostenibile. Il piano lanciato nel 2017, che prevedeva la creazione di 15.000 posti aggiuntivi entro il 2027, si è arenato: meno di un terzo delle nuove strutture è stato completato, e le previsioni più ottimistiche spostano il completamento al 2029.
Darmanin eredita una situazione esplosiva, dove non si tratta solo di costruire nuovi spazi, ma di ripensare il sistema nella sua interezza. Tra le opzioni sul tavolo ci sono la riqualificazione di vecchi edifici penitenziari, l’uso di strutture modulari prefabbricate e un maggior utilizzo di modelli già esistenti come gli istituti per minori (EPM) e i centri di accompagnamento al reinserimento (SAS).
La sfida delle «carceri a misura d’uomo»
Le reazioni alla proposta di Darmanin sono contrastanti. Da un lato, figure come Wilfried Fonck, segretario nazionale del sindacato Ufap-Unsa penitenziario, apprezzano l’idea: «Centri più piccoli migliorano le condizioni di detenzione e di lavoro. I grandi complessi, con 900 detenuti in strutture progettate per 600, sono un incubo gestionale.» Dall’altro, emerge un forte scetticismo. «Queste soluzioni tampone non risolveranno il problema senza una regolamentazione che consenta liberazioni anticipate in caso di sovraffollamento», avverte Fogliarino.
Il senatore dei Républicains, Antoine Lefèvre, mette il dito nella piaga: «Anche le strutture più piccole rischiano di fallire se non rispettano il principio dell’incarcerazione individuale. Cosa ci guadagniamo se continuiamo a stipare tre persone per cella, con materassi per terra?»
Un’utopia da costruire
Il dibattito su questa proposta riflette un problema più grande: il sistema penitenziario francese non può più permettersi di essere semplicemente «repubblicano di nome», come denuncia un recente rapporto. Servono soluzioni che non si limitino alla «politica immobiliare», ma affrontino il cuore del problema: reintegrazione, dignità e gestione sostenibile della pena.
Darmanin si trova di fronte a una sfida titanica. Le «piccole carceri» potranno essere un tassello del mosaico, ma senza un cambiamento sistemico rischiano di restare un’utopia. La Francia è davvero pronta a fare i conti con le sue prigioni? La risposta non arriverà solo dai cantieri, ma dalla capacità politica di trasformare una visione in realtà.
nella foto Reuters, il ministro francese Gérald Darmanin.