Il 31 marzo Marine Le Pen, leader del partito nazionalista di estrema destra francese Rassemblement National, è stata condannnata in primo grado, per appropriazione indebita: fondi pubblici destinati ai collaboratori dei parlamentari europei per coadiuvare la loro attività europarlamentare, sarebbero invece stati impiegati in Francia, per altri scopi. La pena stabilita è di 4 anni di reclusione (di cui due sospesi e due ai domiciliari con il braccialetto elettronico), 100mila euro, più la sanzione accessoria dell’ineleggibilità per cinque anni. A carico di Le Pen è stata infatti applicata la cosiddetta la legge Sapin II, approvata il 9 dicembre 2016, prima dell’elezione dell’attuale presidente Emmanuel Macron avvenuta nel 2016.
La norma, che mira, tra le altre cose, a garantire la trasparenza delle istituzioni e a prevenire fenomeni corruttivi non solo nella P.A. ma anche nell’ambito delle aziende e delle grandi organizzazioni, e per la parte applicata in questo caso prevede che diventi ineleggibile chi sia condannato per reati «contro l’integrità». La sanzione accessoria dell’incandidabilità può diventare esecutiva alla fine dell’intero processo o dopo il primo grado di giudizio in «esecuzione provvisoria»: questo aspetto è a discrezione del giudice, ma da quando esiste a legge è sempre stata applicata con la modalità messa in atto con Le Pen «contro la recidiva».
Il diritto penale francese ammette come quello italiano ricorso nel merito in appello e di legittimità in Cassazione, ma non ferma l’esecuzione della sentenza ed è poco probabile che la sentenza di secondo grado possa arrivare in tempo per la prossima tornata presidenziale (2027).
LA SENTENZA
La sentenza non riguarda solo Le Pen, ma 9 europarlamentari del Rassemblement National, il partito sovranista francese, e 12 assistenti per aver firmato «contratti fittizi», all’interno di quello che è stato definito un “sistema” di appropriazione indebita, che il tribunale ha ritenuto in essere dal 2009 con Le Pen al centro.
«È stato accertato», ha dichiarato la Presidente del Tribunale di Parigi Bénédicte de Perthuis – sono state lette in aula le motivazioni contestuali della sentenza, 150 pagine data la delicatezza del caso – che gli assistenti, «che passavano da un deputato all’altro», «lavoravano in realtà per il partito», e «che il loro deputato (l’eurodeputato di riferimento) non aveva affidato loro alcun compito».
Non si trattava, ha spiegato la giudice, «di mettere in comune il lavoro degli assistenti quanto piuttosto di mettere in comune le risorse degli eurodeputati». «Nessuno», ha precisato la Presidente del Tribunale, «viene processato per aver svolto attività politica, non è questo il tema. La questione è, invece, sapere se i contratti sono stati eseguiti o meno».
«Questa modalità di motivazione contestuale», spiega Edmondo Bruti Liberati, profondo conoscitore del sistema penale francese, «è usuale in Francia, dove dopo le conclusioni è prevista un’udienza per la lettura del dispositivo e delle motivazioni. In genere sono più snelle, ma in questo caso sono state dettagliate per la delicatezza della vicenda. Anche in Italia sarebbe possibile un sistema analogo, a norma di procedura, ma non viene quali mai utilizzata perché piace poco a una parte dell’avvocatura convinta che nasconda una decisione preconcetta del giudice. Sarebbe però utile a dare uno schema del percorso decisionale, eviterebbe tante illazioni in attesa delle motivazioni estese». Qualcosa di simile in Italia ha reso sistematico da qualche anno la Corte Costituzionale che emette accanto al dispositivo uno scarno comunicato che sintetizza i motivi della decisione rinviando alle successive motivazioni per la sentenza completa.
Le reazioni e il loro contesto
La sentenza è stata accolta dall’interessata con il commento «sentenza politica», “lettura” condivisa pubblicamente da tanti leader sovranisti in giro per il mondo, compreso l’ormai immancabile tweet di Elon Musk, che ha preso l’abitudine di insolentire le magistrature del mondo ogni volta che emettono sentenze poco gradite anche al di fuori degli Stati Uniti.
Un commento piuttosto usuale, nella politica recente, in riferimento a sentenze sgradite alla classe dirigente.
Se la separazione dei poteri, che sta alla base del costituzionalismo liberaldemocratico moderno, prevede che non ci sia potere non limitato e che la legittimazione popolare da sola non possa fondare un potere sciolto dall’obbligo lo vincola alla legge vigente, da qualche tempo si assiste a una manifesta insofferenza del potere esecutivo ai contrappesi e in generale alla tendenza della politica tentata dal sovranismo a pretendere, grazie al consenso, una legittimazione oltre la legge, e alla descrizione dei contrappesi costituzionali come ostacoli alla volontà popolare, siano essi magistratura, ordinaria e contabile; dibattito parlamentare; Corti costituzionali; presidenti della repubblica in caso di Repubbliche parlamentari; legislazioni sovranazionali per cui si sono firmati accordi internazionali e cessioni di sovranità;libera stampa verso la quale non si contano più gli insulti.
Tentazioni ricorrenti nel mondo
La prima spia di questa insofferenza è spesso un programma di “riforma” della giustizia che limiti, spesso in modo subdolo, con il travestimento di altri pretesti, l’indipendenza del potere giudiziario. L’ultima di queste riforme, in ordine di tempo, ha compiuto un passo avanti pochi giorni fa in Israele, con una legge che cambia la commissione che nomina i giudici: nell’ambito di un controverso progetto che per mesi ha portato in piazza in Israele ogni settimana migliaia di persone contrarie a un disegno di legge che prevedeva, tra le altre cose, la possibilità per il governo di scavalcare le sentenze della Corte Suprema, che era stato messo in sonno per altre urgenze dopo il 7 ottobre ma che sta tornando in agenda.
Tentativi di espansione dell’esecutivo e comunque di pretesa legittimazione popolare della politica in senso sovranista, a discapito dei Parlamenti e della magistratura, sono argomento d’attualità trasversale, che tocca anche Paesi di lunga tradizione democratica, tanto da spingere diversi analisti a coniare e utilizzare sempre più sovente l’espressione “internazionale sovranista”.
Non per caso le riforme della giustizia sono spesso sotto la lente, in quanto fattore di rischio di scivolamento antidemocratico in caso di compressione dell’indipendenza della magistratura: si pensi alla lente dell’Europa su Ungheria e Polonia negli anni scorsi; ai giudici, agli avvocati e da ultimo il sindaco di Istanbul, principale oppositore politico del governo Erdogan, e candidato contro di lui, arrestati in Turchia. Ai magistrati in piazza in Tunisia nei mesi scorsi, al presidente dell’Aba William R. Bay, la più importante associazione di avvocati statunitense, che il 6 marzo scorso ha denunciato un «chiaro e sconcertante schema» di attacchi a giudici che emettono sentenze sgradite all’amministrazione e ad avvocati che rappresentano clienti ritenuti scomodi dal governo. Secondo l’associazione, alti funzionari statali avrebbero più volte invocato l’impeachment di magistrati senza alcuna prova di condotte illecite, minando l’indipendenza del potere giudiziario e ledendo il diritto di difesa. Il Presidente della Corte Suprema degli Stati Uniti ha sottolineato nella sua relazione annuale crescenti pressioni sui giudici e la necessità di contrastarle fermamente: «Non possiamo accettare un sistema in cui il governo cerca di rimuovere i giudici solo perché le loro decisioni non coincidono con la linea politica dell’amministrazione».
Argomenti, quelli della scarsa coincidenza tra decisioni giudiziarie e linea politica dell’amministrazione che abbiamo sentito moltissime volte anche in Italia e che si sono moltiplicate di recente. Mentre a proposito di riforme dell’ordinamento giudiziario fa molto discutere la separazione delle carriere che il Governo definisce «la madre di tutte le riforme».
Democrazie a rischio? Forma e sostanza
Quando si pensa a una democrazia che “crolla” si pensa generalmente alla prova di forza del “colpo di Stato”, ma costituzionalisti, storici e studiosi di diritto pubblico concordano generalmente nel ritenere che la crisi delle democrazie contemporanee passi per altri meno appariscenti mezzi: e in particolare per la salvaguardia della forma e per lo svuotamento progressivo della sostanza, di cui gli attacchi alla stampa libera e al potere giudiziario sono indicatori. Non per caso per l’esito finale di questo rischioso percorso è stato coniato il neologismo “democratura” parziale sinonimo di autocrazia, sintesi di democrazia (formale) e di dittatura sostanziale. In una recente intervista a Famiglia Cristiana, il costituzionalista Roberto Bin, aveva utilizzato la metafora dello smottamento: «Un processo lento come le frane sulle montagne non succede tutto d’un colpo. Ma è un processo difficilmente arrestabile», anche perché non attira l’attenzione finché non si produce l’evento traumatico della frana. Un concetto per il quale si potrebbero recuperare le parole del discorso sulla Costituzione di Piero Calamandrei, (1955): «La libertà è come l’aria: ci si accorge di quanto vale quando comincia a mancare, quando si sente quel senso di asfissia che gli uomini della mia generazione hanno sentito per vent’anni, e che io auguro a voi, giovani, di non sentire mai».
Era un discorso nel quale esortava gli studenti a tenere alta la guardia a tutela dei pilastri della democrazia, che torna di grande attualità se si tiene conto del fatto che stando a un sondaggio pubblicato su Times il 27 gennaio scorso più della metà dei giovani britannici della generazione Z (13-27 anni) riterrebbe che «oggi il Regno Unito sarebbe un posto migliore se ci fosse un leader forte al potere che non debba preoccuparsi di elezioni e Parlamento».