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Carceri, suor Emma Zordan: in un libro le voci dei detenuti sulla paura del dopo


In occasione del Giubileo del mondo del volontariato, la religiosa, volontaria da anni nell’istituto romano di Rebibbia, torna a far parlare i ristretti con il libro “Noi fuori – la voce dei detenuti di Rebibbia”, edito da Il Levante, in cui affrontano la paura che accompagna spesso il momento del fine pena

Roberta Barbi – Città del Vaticano

“Noi fuori siamo considerati scarto. Noi fuori siamo e saremo sempre nessuno”. È un doloroso grido d’aiuto quello che emerge dalle pagine della nuova fatica di suor Emma Zordan, religiosa delle Adoratrici del Sangue di Cristo, da anni tra i detenuti del carcere romano di Rebibbia dove organizza anche laboratori di scrittura. Un grido sottolineato dalla voce sottile e pacata di questo fiore d’acciaio che è suor Emma, che in occasione del Giubileo del mondo del volontariato torna a far parlare i ristretti con il libro “Noi fuori – la voce dei detenuti di Rebibbia” in cui affrontano la paura che accompagna spesso il momento del fine pena. Il volume ha la prefazione del vescovo di Latina, monsignor Mariano Crociata, ed è stato pubblicato dalle edizioni Il Levante.

Ascolta l’intervista con Suor Emma Zordan:

Il dramma dei suicidi

Il tema suor Emma e i suoi ragazzi l’avevano già affrontato nel 2019 in un altro libro dall’eloquente titolo “Paura della libertà”, ma i dati di cronaca sul drammatico aumento, negli ultimi anni, dei suicidi in carcere che si concentrano proprio nei due momenti dell’ingresso in istituto ma anche del fine pena, li ha portati a riflettere nuovamente sull’argomento: “Rispetto al passato oggi rileviamo che per i detenuti in procinto di uscire spesso il fuori è peggio del dentro – racconta la religiosa ai media vaticani – il mondo spesso è disumano, la società è intrisa di pregiudizi nei confronti di chi sbaglia perciò non perdona, non si fida, non riconosce il cambiamento neppure quando c’è, respinge. Perciò il momento della scarcerazione diventa un incubo”. “Prima, invece, alla paura di uscire si mescolavano sentimenti quali il desiderio di essere liberi, di godere degli affetti, della famiglia, degli amici – rileva suor Emma – oggi prevale la paura di sbagliare al punto che si preferisce restare in galera. E infatti molto spesso ci si torna”.

L’importanza di famiglia e lavoro

Soprattutto per i detenuti che escono dopo aver scontato condanne molto lunghe, quel “fuori” è particolarmente difficile anche perché troveranno la società molto cambiata: “Alcuni sanno già che saranno soli e questa è una nuova condanna, anche peggiore della precedente – afferma la volontaria – può fare la differenza un serio accompagnamento nei momenti difficili vissuti dentro, come la perdita di una persona cara, una notizia indesiderata o una malattia incurabile”. È allora che la famiglia diventa fondamentale, come pure il lavoro: “I familiari devono essere bravi ad accogliere il tormento che queste persone provano a causa del reato che hanno commesso – osserva suor Emma – il lavoro come lo studio, poi, è l’unico ponte reale tra l’interno e l’esterno: basterebbe applicare davvero l’Articolo 27 della nostra Costituzione, invece le esperienze di lavoro in carcere sono poche e a rotazione, i corsi professionalizzanti ancora meno”.

Suor Emma Zordan

Suor Emma Zordan

Paura e speranza

Ed eccole, le due parole che sintetizzano questo caleidoscopio delle sensazioni che provano i ristretti davanti alla prospettiva di uscire: “La speranza, proprio quella che Papa Francesco vuole esaltare nel corso di questo Anno Santo, è la molla che tiene in vita i detenuti – conclude la religiosa – speranza di accoglienza contro paura della recidiva. Le parole del Santo Padre, che esiste una speranza che non delude mai, conforta molto i detenuti, e il mio sforzo da volontaria resta quello di far sentire loro la gioia del perdono del Signore”. 



Dal sito Vatican News

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