«Non sarà una riforma che migliorerà la giustizia, ma che indebolirà l’ordine giudiziario sulla falsa premessa che l’ordine giudiziario ha invaso il campo della politica». Non è un giudizio corporativo quello di Giuseppe Santalucia, all ‘ultimo direttivo della sua presidenza. Prende, invece, spunto dalle stesse parole del ministro Carlo Nordio che, sia sul sito web di giustizia.it che in un passaggio dell’intervista al Corriere parla esplicitamente di «riequilibrio dei poteri». «Questa riforma», spiega il magistrato, «non si occupa minimamente di migliorare qualità e quantità del servizio che si rende ai cittadini, ma solo, appunto, dei rapporti tra i poteri dello Stato». È una «partita, questa tra ceto politico e giurisdizione, che si gioca da 30 anni. E visto che la giurisdizione non ha accettato l’impunità della politica, non ha inteso il primato della politica come la pretesa del politico di sottrarsi ai controlli e alle leggi, oggi paga in termini di allentamento delle garanzie di indipendenza e di autonomia». Un prezzo che i magistrati pagano in prima battuta, ma il cui «prezzo finale, in termini dolorosi, sarà pagato dalla cittadinanza».
E se è vero che occorre fare anche «autocritica, perché non siamo indenni da errori», leggendo bene la riforma, tutte le relazioni illustrative e i disegni di legge che vi sono abbinati, appare evidente che questa è una riforma che «difetta sul piano della logica», ma soprattutto «che non intercetta nessun bisogno dei cittadini. Si occupa della giustizia solo nella dimensione del rapporto tra i poteri dello Stato e non in quella del servizio».
Per capire lo squilibrio dei poteri basta citare solo l’introduzione della Corte disciplinare. Con la separazione delle carriere e la costituzione di due Csm (organo di autogoverno dei giudici), uno per la magistratura giudicante e una per quella requirente, si sottrae ai due Consigli la decisione sull’azione disciplinare e la si attribuisce a una Alta Corte in cui i magistrati non hanno, come nel Csm attuale, la maggioranza dei due terzi. In pratica si istituisce un “tribunale ad hoc” che decide non degli avanzamenti di carriera o degli spostamenti tra una sede o un’altra, ma su azioni disciplinari che possono indebolire l’azione non gradita di un giudice.
Per questo, aggiunge il segretario dell’Anm, Salvatore Casciaro, è «una riforma a tutela dei potenti. Con la separazione delle carriere «sarà fatale un controllo sul pubblico ministero e questo determinerà che alcune indagini scomode non verranno mai sottoposte a quel giudice terzo, imparziale che i riformatori sostengono di voler potenziare. Ci saranno potenti di turno che potranno mitigare, controllare le indagini a loro non gradite. Questo si rifletterà in una perdita di garanzie di uguaglianza dei cittadini davanti alla legge».