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Ambrogino d’oro al Sant’Ambroeus: «La nostra partita fuori e dentro il campo»

di Alessandro Stella

«La nostra è una continua partita dentro e fuori dal campo e questo premio è come aver segnato un piccolo gol. Ci fa molto piacere, è segno che avevamo ragione noi a voler creare tutto ciò. Ma sappiamo che la strada verso la vittoria è ancora lunga». Utilizza un’inevitabile, ma calzante metafora calcistica Gian Marco Duina, -co-fondatore, dirigente e giocatore del St. Ambroeus Fc– la squadra di calcio dilettantistica milanese, che il 7 dicembre riceve l’Attestato di Civica benemerenza agli Ambrogini d’Oro 2025. Ma cosa ha portato questo piccolo club sportivo a ricevere una delle massime onorificenze milanesi? Il motivo è che il St. Ambroues non è una semplice società di calcio. È una realtà finanziariamente autogestita e nata a marzo 2018 – «anche se poi visto il nostro nome abbiamo deciso di fissare il 7 dicembre come giorno del nostro compleanno», specifica Duina – con l’obiettivo di dare attraverso il pallone una possibilità di vita più stabile a rifugiati e richiedenti d’asilo. E ad aiutarli a trovare una casa o a ottenere il permesso di soggiorno. In 6 anni sono passati al St. Ambroeus oltre 520 ragazzi provenienti da 20 paesi e 4 continenti diversi. 

«Noi ci sentiamo dalla parte giusta della storia. Le nostre vittorie vanno oltre al campo. Molti ragazzi grazie al calcio hanno trovato un posto dove stare e hanno potuto vivere un momento bello a Milano, prima magari di andarsene altrove per tanti motivi. I flussi migratori sono fenomeni sociali inevitabili e vanno facilitati. Non bisogna mai mettere muri», sottolinea Duina con orgoglio. Duina è appunto uno dei co-fondatori del club, attualmente guidato dal presidente Jonathan Misrachi. Lui c’è dal giorno uno dell’inizio di questa avventura basata sull’inclusione e sull’accoglienza. Un percorso nato e portato avanti in un periodo dove, giorno dopo giorno, la solidarietà non sembra più essere un fattore prioritario. «Per noi il calcio è un simbolo universale di accoglienza. Inizialmente eravamo formati solo da migranti. Oggi abbiamo 4 squadre (Terza Categoria e Under 19 Figc, Csi Open al maschile e una squadra femminile nel Csi Open B, ndr). I migranti non costituiscono più il 100% del club, ma questo vuol dire che non siamo rimasti isolati. Siamo riusciti ad accogliere anche tanti milanesi e italiani, che hanno visto nel nostro progetto un nuovo modo di fare sport. Il nostro primo presidente era gambiano ma si sentiva milanese, come dovrebbe essere per chiunque vive a Milano. Tutti coloro con cui lavoriamo per noi sono i nuovi milanesi e questo deve diventare la normalità».

Ovviamente non sono mancate le critiche al progetto e le difficoltà da affrontare restano numerose: «All’inizio abbiamo ricevuto tanta ostilità soprattutto sui social, da persone che non ci conoscevano. Poi chi ha visto come lavoriamo ci ha manifestato rispetto e solidarietà» prosegue il dirigente del St. Ambroues. «Anche le istituzioni non sempre sono perfetti compagni di squadra. Alcuni giocatori non hanno i documenti adatti e la Federazione ne impedisce il tesseramento. Abbiamo difficoltà anche con gli spazi pubblici dove poter giocare. Il nostro campo (Fair Play Arena di Via Bechi, quartiere Gorla, ndr) ci è dato solo in concessione dal Comune di Milano. Abbiamo sfide quotidiane da affrontare anche a livello di gestione dei costi. Ecco perchè dico che la partita è ancora lunga». 

Il St. Ambroues oltre all’accoglienza di rifugiati e richiedenti d’asilo si occupa da sempre anche di creare iniziative sociali all’interno del proprio quartiere. Tra gli ultimi progetti c’è quello chiamato Se sta mai con i man in man: una consegna di vestiti e beni di prima necessità ai senza fissa dimora costretti a vivere al freddo. A gestire questo tipo di iniziative è l’Armata Pirata 161, il particolare gruppo di tifosi della società meneghina che ogni domenica si schiera numeroso per sostenere i propri ragazzi. 

A spiegare meglio le dinamiche di questo ambiente è Matteo Cimbal, co-fondatore del gruppo di tifo e attualmente anche dirigente del club. Un doppio ruolo ben differente e solitamente poco usuale nel mondo del calcio. «Il tifoso-dirigente è modello necessario per poter parlare di calcio popolare. Ci hanno proposto ormai da diversi decenni un calcio che vede distanza tra chi ama i colori di una maglia e chi prende decisioni per essa. Ci hanno insegnato che c’è anche una differenza culturale e intellettuale tra questi ruoli. Noi abbiamo dimostrato che non è così. In 6 anni abbiamo organizzato la parte tecnico-sportiva e la parte sociale/politica. Abbiamo imparato a fare i tesseramenti, a tenere conto dei bilanci, a gestire un campo sportivo con altre società, a superare i problemi» racconta Cimbal. «Non è stato facile, ma il modo grazie a cui ce l’abbiamo fatta è stato proprio quello di non delegare alla figura dei burocrati la gestione del tutto. Ogni sfumatura del nostro progetto arriva da uno sforzo collettivo e avendo oggi una tifoseria molto numerosa è anche semplice capire l’apporto che tante di quelle teste possono dare alla nostra società. Non ce l’avremmo fatta senza creare questo modello ibrido».

Cimbal poi chiude, provando a spiegare l’essenza dell’essere tifoso di una squadra popolare: «Essere parte del St.Ambroeus significa essere parte di un progetto collettivo. Se una persona ha solo voglia di andare allo stadio a bersi le birre ci sono partite molto più interessanti e tecnicamente stimolanti delle nostre. Da noi si sostiene l’idea St.Ambroeus e per fare ciò non bastano novanta minuti alla settimana. Serve molto, molto, più impegno». 





Dal sito Famiglia Cristiana

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