È la serie Tv del momento Adolescence, quattro puntate scioccanti che raccontano una storia purtroppo non nuova alle cronache più nere. Anche un ragazzino può essere un assassino. Perfino un ragazzo di buona famiglia, col viso d’angelo, che ancora dorme con l’orsacchiotto.
L’eccezionalità di Adolescence è ell’impatto sullo spettatore, su di noi che siamo genitori, che siamo figli. Increduli, siamo posti di fronte all’impensabile. Senza violenza cruda, ma con la violenza del male che ti prende la gola e non sai perché né come abbia potuto scatenarsi con tanta forza.
Jamie è bravo a scuola, vive in una ridente cittadina britannica, ha un padre che lavora sodo, una madre che cerca a fatica la leggerezza per tenere insieme la famiglia, con i figli adolescenti che al solito danno qualche problema. La figlia maggiore, Lisa, sbuffa spesso, insofferente. Cose così. Di insolito è l’irrompere della polizia in casa, all’alba, per arrestare Jamie, 13 anni, accusato di aver ucciso a coltellate una compagna di scuola. Sarà un errore, ci diciamo accanto ai genitori sgomenti. No, perché Jamie è davvero colpevole, anche se nega. Solo il tempo gli farà capire, almeno si spera, e confessare la colpa. Nessuno spoiler, la storia è stata vista e raccontata per ogni dove.
Si è sottolineata la genialità del regista, che ha girato ogni puntata in piano sequenza, in una sola ripresa. Nessuna interruzione, nessun montaggio. Interpreti eccezionali, operatori che diventano comparse, per muoversi più liberamente sul set. Che è una casa vera, una scuola vera, un quartiere vero e ogni spostamento dei protagonisti, a piedi, in auto, è seguito in tempo reale. Chi guarda si immedesima in ogni gesto, in ogni smorfia, soffrendo il percorso lento, perturbante di Jamie in carcerazione protetta. Che diamine, è solo un bambino. Probabilmente bullizzato, perché timido con le ragazze. Certamente respinto dalla compagna di cui era invaghito. Forse succube delle pretese di un padre troppo orgoglioso, che lo voleva uomo anzitempo. Poi ci sono i presunti amici, pronti a schernire e a spingerti al femminicidio, perfino a darti un coltello. E i social, dove troppi adolescenti fingono un’immagine distorta di sé, per coprire il disagio e la sensazione di essere fuori posto, brutti, sbagliati.
Tutto vero, come vera la solitudine di una famiglia travolta dallo scandalo e disprezzata. Che pure resiste, perché un figlio è un figlio e “Jamie siamo noi”, come chiosa la figlia maggiore che rifiuta la fuga e la vergogna. Però nessuno ha riconosciuto il vero senso, il coraggio di questa narrazione asciutta, cruda, senza moralismi. Nel mostrare che il cuore dell’uomo è un abisso, dove si rintanano il bene e il male. Nessuna lettura sociologica o psicologica è sufficiente a spiegare la profondità dell’abiezione cui perfino un cuore bambino può cedere. No, l’uomo non è buono in sé e la società lo rende cattivo. O dovremmo credere che ogni ragazzino cresciuto nella miseria e nella violenza di uno slum debba per forza avere la vita segnata. L’uomo può scegliere il bene o il male e sa di compierlo. La Chiesa lo sa. Si chiama peccato.