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Se da domenica un calciatore si graffia la faccia perchè ha perso di chi è la colpa?

Ci sono primati che pesano come macigni, e ingaggi che brillano come pepite d’oro, ma implicano responsabilità non da poco. Prendete Pep Guardiola, genio della panchina, eroe dei moduli calcistici più sofisticati e, ça va sans dire, uno degli allenatori più pagati al mondo: 22,4 milioni di euro lordi all’anno per guidare il Manchester City. Una cifra che non è solo un assegno, ma anche un contratto con la gloria, una promessa implicita di vittorie continue e prestazioni ineccepibili.

Ma l’ultima notte di Champions League ha mostrato l’altra faccia della medaglia, facebdo il giro del mondo. Dopo un vantaggio apparentemente inespugnabile di 3-0, il Manchester City è riuscito nell’impresa – perché di impresa si tratta – di farsi rimontare dal Feyenoord, portando a casa un deludente 3-3. Eppure, i riflettori non si sono fermati sul risultato. La sorpresa, quella vera, è arrivata in conferenza stampa, quando Guardiola si è presentato con graffi sulla testa e segni sul volto. Un’immagine che ha catalizzato ogni attenzione.

“Li ho fatti con le mie dita. Voglio farmi del male”, ha detto lo spagnolo con un sorriso disarmante. E in quel sorriso c’era tutta l’ambiguità di una battuta infelice, lanciata con l’incoscienza di chi vive sotto la pressione di un ingaggio astronomico e di aspettative sovrumane.

Poche ore dopo, forse consapevole del cortocircuito mediatico scatenato, Guardiola ha voluto chiarire. “Sono stato colto alla sprovvista da una domanda sul graffio sul mio viso,” ha scritto sui social, spiegando che si trattava di un incidente causato da un’unghia tagliente. Poi, il passo indietro: “La mia risposta non voleva minimizzare il grave tema dell’autolesionismo.” E ancora, un appello accorato: “So che molte persone lottano con problemi di salute mentale ogni giorno. Vorrei cogliere questo momento per incoraggiarle a cercare aiuto.”

Un chiarimento doveroso, ma che non ha spento le polemiche. I campioni dello sport, piaccia o meno, sono modelli. E un gesto, un’espressione, persino un graffio, possono trasformarsi in messaggi. Nessuna sconfitta – nemmeno la più amara – vale un graffio autoinflitto. Lo sport, per definizione, è una scuola di resilienza, non di autolesionismo.

Ma il punto è un altro, forse più inquietante. Quei graffi, quella battuta, potrebbero essere il sintomo di una cultura che ha smarrito il senso dello sport. Una cultura che vive e si nutre di una pressione insostenibile, dove ogni pareggio è vissuto come un fallimento e ogni sconfitta come un’onta insopportabile.

Se oggi un allenatore come Guardiola si lascia andare a esternazioni così ambigue, facendo violenza su stesso, esibedno in pubblico quella sorta di stigmate del narcisismo competitivo, cosa possiamo aspettarci da giovani calciatori cresciuti in un sistema che non perdona nulla? La vera responsabilità, in fondo, non è solo di Guardiola e dei suoi 22 milioni lordi, ma di un modello di successo che non contempla il margine d’errore.

E se domani qualche giovane talento decidesse di graffiarsi per un rigore sbagliato o per un gol subito su calcio d’angolo, chi sarebbe davvero da biasimare? Forse, quel circuito miliardario che chiede sempre e solo la vittoria. E di certo un grande campione, un po’ meno come uomo in questo caso, di nome Pep Guardiola.





Dal sito Famiglia Cristiana

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