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Sito ufficiale della Parrocchia Matrice San Michele Arcangelo. Neviano Lecce.

I nostri militari a difesa della pace

C’è chi è in tuta, chi in pigiama o in pantaloncino. Ci sono le calze con le fragole e gli occhi stropicciati dal
sonno, le divise… Quello che non manca mai è il giubbotto antiproiettile, con il relativo elmetto. Perché,
quando suona l’allarme bunker, che si stia dormendo, facendo la doccia, mangiando o lavorando tutti
indossano le protezioni e si dirigono, spediti, verso il luogo assegnato. Succede sempre più spesso da
quell’8 ottobre quando, il giorno dopo la strage di Hamas, sono ripresi gli scambi di fuoco tra le Forze di
difesa israeliane (Idf) e, dal lato del Libano del Sud, Hezbollah e altri gruppi armati. Botta e risposta
ormai quotidiani che hanno già provocato almeno 90 mila sfollati interni nel Paese dei cedri e aggravato
una crisi economica già largamente diffusa negli ultimi anni. In un quadro sempre più instabile
«cerchiamo di fare il possibile per contribuire a una de-escalation della tensione muovendoci su più
piani», spiega il generale di Brigata Enrico Fontana, comandante della Joint Task Force-Lebanon Sector
West (Jtf-l Sw). Il braccio operativo di Unifil, la Forza di interposizione voluta dalle Nazioni unite, a guida
italiana, «fa di tutto per interporsi tra le parti, vigilare sulla blue line, aiutare le Laf, le forze armate
libanesi, sostenere le popolazioni civili. Fa da collettore delle esigenze del territorio e facilita la
cooperazione civile e militare». Gli oltre mille soldati italiani, su un contingente di 3.500 provenienti da
17 nazioni diverse, sono pronti a dare una mano anche nelle piccole cose. Che servono perché la
popolazione possa avere una vita quotidiana più serena. Come il recupero degli alveari di un anziano
contadino rimasti in una zona inaccessibile per via degli attacchi. Al confine con Israele è un susseguirsi
di villaggi distrutti, di alberi rasi al suolo, di crateri dove prima c’erano palazzine e abitazioni. «Welcome
Leboo» si legge scritto col gessetto sullo stipite di un edificio sventrato che un tempo doveva essere un
bar, nella zona di Yarin.
Eppure qui la capacità di rinascere sembra senza fine. Attaccate a qualche albero sono rimaste, per la
fine del ramadan, alcune palline simili a quelle di Natale, mentre a due passi la chiesa maronita di Alma
Ash Sha’b, dedicata alla Madonna della natività, continua a rimanere aperta per i suoi fedeli. In un Paese
che è un mosaico di religioni, culture e capacità di convivenza tutto sembra ancora possibile. E nello
stesso tempo fragilissimo… Le torrette israeliane oltre il filo spinato sorvegliano, completamente
automatizzate, il confine stabilito dall’Onu nel 1978. O meglio la linea di demarcazione non ancora
completata. Dei poco più di 540 piloni blu che avrebbero dovuto tratteggiare una linea di 120 chilometri,
ne sono stati piazzati circa la metà.
«Per ognuno», spiega l’ufficiale Erica Calibeo, «c’è uno studio
complicatissimo fatto da ingegneri, informatici, tecnici. Perché anche uno spostamento di pochi
centimetri potrebbe provocare uno scontro acceso». E se Israele guarda da sinistra, da destra c’è
l’avamposto italiano di 1-31. La base, al comando del tenente colonnello Gian Piero Abatini, è quella più
vicina alla zona calda. Tanto che, in una delle botte e risposte tra Israeliani ed Hezbollah, pietre di
rimbalzo sono arrivate a rompere una decina di pannelli solari ed è stata ammaccata da un masso la
tettoia proprio sopra uno dei bunker.
«Nessuno cerca di colpirci intenzionalmente», spiega Abatini, «ma
bisogna stare attenti agli effetti collaterali delle esplosioni. Per me è la prima volta da casco blu dell’Onu
e devo dire che ci si sente estremamente utili».
Le Laf, che spesso accompagnano i convogli, pattugliano e aprono la strada. Sono loro che hanno il
controllo del territorio, mentre Unifil «opera secondo la risoluzione Onu 1701 del 2006», aggiunge il
colonnello Alberto Salvador al comando di Italbatt, ad Al Mansouri. «Il nostro compito è quello di far
rispettare gli accordi tra Israele e Libano, di segnalare le violazioni. Facciamo il possibile per creare le
precondizioni di una vera stabilità, perché sarebbe un peccato che le cose precipitassero. Questo è un
posto unico al mondo per come le religioni e le culture riescono a convivere».
E di convivenza parla anche il parroco di Rmeich, padre Toni Elias. Le campane della sua parrocchia,
dedicata all’Ascensione, hanno suonato a distesa lo scorso mese per impedire che «gruppi armati
lanciassero dei missili dal nostro territorio verso Israele. Siamo in buoni rapporti con tutti qualunque sia
la loro fede. Nel Libano è sempre stato così. L’unica cosa che chiediamo è di non usare la violenza. Per
questo, quando i giovani mi hanno avvertito che stava per succedere qualcosa ci siamo mobilitati per
impedire il peggio». L’unico villaggio cristiano ancora in piedi sulla blue line vorrebbe continuare a

«vivere in pace. Abbiamo affrontato il covid», aggiunge il sindaco Milad Al Alam, «poi la crisi economica,
la grave inflazione e adesso questa tensione continua. Tre quarti degli abitanti erano andati via dal
villaggio. Adesso sono tornati quasi tutti. Cerchiamo di fare una vita normale, ma facciamo ancora
lezione a distanza perché le scuole sono chiuse per sicurezza e sentiamo e vediamo le continue
esplosioni». Ringraziano Unifil, «per gli aiuti e l’assistenza che ci dà, per la sua stessa presenza»,
conclude il parroco. «Da parte nostra cerchiamo di resistere continuando a dire di no alla violenza.
Difenderemo la pace e il nostro villaggio senza armi, con i nostri soli corpi. E, per chi crede, con l’aiuto di
Dio».





Dal sito Famiglia Cristiana

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