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Botte, tifo e rap: attenzione, non sono solo canzonette

Luci a San Siro, quante emozioni perdute nella bella canzone di Vecchioni, nell’illusione che quello stadio, con i suoi sogni, le sue speranze, fosse solo un luogo di gioco, di gioiose e festose sarabande. Le tifoserie violente esistevano anche allora, sono sempre esistite.

È incredibile come una passione, una competizione, pur serrata e pressante, possa trasformarsi in una fede, diventare ragione di vita. Al punto da sacrificarle non solo tempo, interessi, amicizie, altri svaghi, ma la morale, con le virtù della ragione: la moderazione, la prudenza, il rispetto, l’altruismo.

Però – e non riguarda solo San Siro – il marciume maleodorante emerso dalle indagini giudiziarie che coinvolgono due squadre regine del calcio italiano (quante altre?) dice qualcosa di più. Dice che l’indottrinamento calcistico non c’entra più nulla con lo sport (evito di usare la parola fede per tanta zozza e meschina vicenda). Dice che siamo oltre, o meglio dentro i bassifondi dello sport.

Passiamo il tempo a spiegare ai nostri bambini e ragazzi che lo sport educa all’impegno, al sacrificio, alla relazione, alla condivisione, all’umiltà, alla generosità. Che fa crescere, umanamente. E nonostante il fanatismo di genitori ossessivi e onnivori, tanti bambini e ragazzi crescono, anche sui campi di calcio.

Poi vanno allo stadio e vedono la strafottenza, l’arroganza di chi dirige non solo le coreografie, ma comanda le curve. Striscioni violenti, infamanti e infami. Posti assegnati a chi è più forte e urla di più. Minacce, intimidazioni.

Storia vecchia, forse. Ma lo sconvolgimento nelle cosiddette tifoserie milanesi dice altro: complicità, legami stretti con la ’ndrangheta. Il pizzo preteso sui biglietti, sui parcheggi, sulle bibite, il ricatto a calciatori e ad allenatori, omertosi per paura. Soldi, troppi soldi, che trasformano manovali ignoranti dell’urlo facile in delinquenti.

E purtroppo non c’è solo questo. Qui sta la novità: la teppaglia criminale è diventata un modello. I capi delle cosiddette tifoserie, nerboruti e tatuati, frequentano le discoteche, i locali, i resort alla moda. Si appalesano sempre più di fronte ai vari City Life, guardaspalle di protagonisti famosi della scena della musica e dello spettacolo.

Imitabili, perché il richiamo dei soldi è maledettamente attrattivo: coi soldi arrivano le donne, le Ferrari, la fama. Idolatrati come gli idoli che accompagnano. E non è un caso che questi “idoli” siano soprattutto rapper, troppe volte coinvolti in attività dubbie o illegali, alcuni usi a entrare e rientrare nelle case circondariali.

Bisogna mettere in guardia dai cattivi maestri. Non solo chi ritiene un merito inventare jingle per insultare le squadre avversarie, o menar le mani, quando si tratta di sport. Anche chi stordisce con volgarità, insulti, discriminazioni in forma di musica, ripetute come nonsense perfino alle feste dell’asilo, oltre che in tv e radio. Attenzione, non sono solo canzonette.





Dal sito Famiglia Cristiana

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