Nel congedarsi dagli anziani di Efeso – che non avrebbe più rivisto – l’Apostolo Paolo, disse: «E ora vi affido a Dio e alla parola della sua grazia, che ha la potenza di edificare e di concedere l’eredità fra tutti quelli che da lui sono santificati» (At 20,32). Mi piace pensare che queste parole papa Francesco le abbia riservate anche a voi prima di tornare al Padre.
In questo particolare momento per la Chiesa, vogliamo affidarci alla grazia e alla potenza della Parola di Dio e lasciarci concretamente guidare e illuminare da essa, a partire dalla duplice veste della liturgia odierna. Da una parte, infatti,
abbiamo il brano evangelico di questa giornata, Martedì della 2ª settimana di Pasqua, brano che riporta una parte del dialogo notturno intercorso tra Gesù e Nicodemo (cf. Gv 3,7-15). Dall’altra – almeno in Italia e in Europa – abbiamo la pagina evangelica della Festa di Santa Caterina da Siena, Patrona d’Italia e d’Europa e Dottore della Chiesa, colei che soleva rivolgersi al Papa con la tenerissima espressione: “dolce Cristo in terra”. Per questa festa, la Chiesa ci fa proclamare il brano evangelico contenente il “rendimento di lode” che Gesù rivolge al Padre per aver rivelato i misteri del Regno ai piccoli, e non ai dotti e ai sapienti di questo mondo (cf. Mt 11,25-30).
LA CENTRALITÀ DI CRISTO GESÙ
Partendo proprio da questo brano evangelico, desidero soffermarmi sulle parole di Gesù: «Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi ristorerò» (Mt 11,28). Mettiamoci idealmente al posto dei “piccoli” a cui si riferisce il Vangelo, e sentiamo come rivolto a noi l’invito di Gesù: “Venite a me!”, invito con il quale egli si propone in maniera inequivocabile non solo come la “via” (cf. Gv 14,6), ma anche come la “méta” verso cui tendere. Noi, venerati Padri, non siamo che peregrinantes in spem, pellegrini in cammino verso «Cristo Gesù nostra speranza» (1Tm 1,1).
A questo invito di Gesù viene spontaneo associare le limpide e disarmanti parole pronunciate dall’apostolo Pietro dopo il discorso del Signore sul pane di vita, discorso che, per la sua durezza, aveva causato l’abbandono di molti discepoli. Alla domanda di Gesù ai Dodici: «Volete andarvene anche voi?», Pietro, a nome di tutti, risponde: «Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna e noi abbiamo creduto e conosciuto che tu sei il Santo di Dio» (Gv 6,67- 69).
In un momento così gravido di conseguenze per la Chiesa – come quello della scelta del Vescovo di Roma e Pastore della Chiesa universale – le parole di Gesù: «Venite a me, voi tutti», a cui fa eco la domanda retorica di Pietro: «Signore, da chi andremo?», risuonano come un invito pressante a ricomporre ogni moto del vostro animo, della vostra mente, del vostro cuore e della vostra vita attorno alla persona di Gesù e alla luce gioiosa del suo Vangelo.
Al cuore della sapienza che la Chiesa ha accumulato lungo i secoli; al centro delle norme di cui essa necessita per affrontare compatta le vicissitudini della storia; dentro il suo essere “espertissima di umanità” (rerum humanarum peritissima) – come affermava san Paolo VI (Populorum progressio, n. 13) – vi è sempre la persona di Gesù, il Figlio di Dio-fatto-carne, morto e risorto per la nostra salvezza! È Lui che la Chiesa è chiamata ad annunciare e a testimoniar al mondo. Se al centro della missione della Chiesa non ci fosse Lui, il Cristo, che «è lo stesso ieri e oggi e per sempre!» (Eb 13,8), essa non sarebbe che
un’istituzione fredda e sterile, priva di quel fuoco sacro che brucia, riscalda e illumina, e che le proviene dal suo Signore!
Quello che sto dicendo vi sembrerà scontato e ovvio, e tuttavia ritengo che non sia inutile ricordarcelo, perché riposizionarci ogni giorno su questa certezza della nostra fede ci preserva dal rischio di essere fagocitati dalle suggestioni e dalle lusinghe del mondo, dalle facili vie di fuga che esso ci prospetta e che hanno come inevitabile conseguenza l’annacquamento della forza vitale e profetica del Vangelo di Gesù. Sì, abbiamo sempre bisogno di «respirare Cristo» (Sant’Antonio Abate), perché egli «è tutto per noi» (Sant’Ambrogio), e solo nel suo abbraccio e nella luce del suo Spirito la Chiesa troverà la forza necessaria per continuare la sua opera di salvezza lungo i sentieri del tempo e della storia.
Sia dunque il Cristo la stella polare e al tempo stesso la bussola delle vostre attese, dei vostri incontri, dei vostri dialoghi, delle scelte che sarete chiamati a compiere.
MITEZZA E UMILTÀ
Nel suo “rendimento di lode” al Padre, Gesù ci dice anche che cosa dobbiamo imparare da lui: «Imparate da me – dice –, che sono mite e umile di cuore» (Mt 11,29). Come è noto, nel linguaggio biblico il cuore rappresenta la realtà intima di una
persona, ed è proprio questo ciò che Gesù vuole condividere con noi: la sua più intima realtà, la comunione con il Padre e il suo amore per gli uomini. Infatti, nell’autodefinirsi “mite e umile di cuore” egli non afferma semplicemente di prendere le distanze da atteggiamenti di arroganza, durezza e autoritarismo, ma intende alludere a un vero e proprio modo di stare davanti a Dio e davanti agli uomini: davanti a Dio, con un atteggiamento di confidenza, docilità e obbedienza; davanti agli uomini, con un atteggiamento di accoglienza, di compassione, di disponibilità al perdono e al servizio.
Il fatto poi che Gesù inviti ad “imparare” da lui, significa che la mitezza e l’umiltà non appartengono all’essere umano in modo naturale. Istintivamente, infatti, noi saremmo più inclini alla superbia e all’arroganza che non alla mitezza e all’umiltà. E poiché la Chiesa è chiamata a mostrare al mondo il volto del suo Signore, essa deve quotidianamente lasciarsi evangelizzare per imparare sempre più e sempre meglio che cosa significhi essere nel mondo il volto mite, umile e compassionevole di Gesù.
Insomma, la Chiesa radicata in Cristo è una Chiesa capace di incarnarsi nella storia e di attraversarla con fiducia in compagnia del suo Signore, non conformandosi ai criteri mondani di potenza e di dominio, ma modellandosi su quelli della mitezza e dell’umiltà, dell’amore misericordioso e compassionevole che Gesù ha incarnato nella sua vita terrena.
La Chiesa radicata in Cristo è una Chiesa aperta, coraggiosa e profetica, che aborrisce parole e gesti violenti, che sa farsi voce di chi non ha voce e che, se necessario, sa essere anche una voce fuori dal coro pur di indicare pervicacemente i sentieri della giustizia, della fraternità e della pace.
La Chiesa radicata in Cristo è una Chiesa che è maestra di fraternità, insegnata con parole e gesti improntati al rispetto reciproco, al dialogo, alla cultura dell’incontro e alla costruzione di ponti e non di muri, come ci ha sempre invitato a fare papa Francesco. La Chiesa radicata in Cristo è una Chiesa madre, non matrigna, che sa accudire e nutrire i suoi figli e le sue figlie ancorandoli alla speranza che non delude, l’amore di Dio riversato nei nostri cuori (cf. Rm 5,5).
La Chiesa radicata in Cristo è una Chiesa che rifugge l’autoreferenzialità e che sa oltrepassare i propri recinti pur di raggiungere anche quei fratelli e sorelle in umanità che non fanno parte di essa e che sperimentano il non senso della vita
o sono segnati dallo stigma dell’emarginazione e dell’esclusione.
Al riguardo, come è noto, papa Francesco ha riportato al centro dello sguardo della Chiesa tutti coloro che le nostre società opulente ed egoistiche considerano scarti, ossia i poveri, i diseredati, gli ultimi, sviluppando – a partire dall’Evangelii gaudium – due angolature complementari: da una parte la denuncia delle cause strutturali della povertà, dovute al contesto economico e sociale; dall’altra, l’introduzione di una prospettiva teologica, grazie alla quale i poveri non sono più considerati solamente alla luce di un approccio socioculturale e storico – come degli emarginati, appunto – ma sono compresi all’interno di una categoria teologica. In altre parole, la povertà, prima ancora che essere un problema dal punto di sociologico ed etico, è una questione che interessa la dottrina (EG, n. 198).
Credo che questo spostamento di accento abbia ancora bisogno di essere compreso in tutta la sua portata, anche perché richiede una «nuova mentalità che pensi in termini di comunità, di priorità della vita di tutti» (EG, n. 188). Sono certo, tuttavia, che la Chiesa non mancherà di continuare a tenere gli occhi e il cuore spalancati sugli ultimi della terra, la carne viva di Cristo nel mondo, facendo sue «le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono» (GS, Proemio 1), e senza smettere di sognare anche ciò che sembra impossibile!
LA LIBERTÀ DELLO SPIRITO
Dell’altra pagina evangelica, quella del Martedì della seconda settimana di Pasqua – pagina che, come dicevamo, descrive l’incontro notturno di Gesù con Nicodemo – vorrei trattenere la seguente affermazione di Gesù: «Il vento soffia dove vuole e ne senti la voce, ma non sai da dove viene né dove va: così è chiunque è nato dallo Spirito» (Gv 3,8). In vista del compito che vi attende, mi pare che questa sia una parola da accogliere in profondità e sulla quale soffermarsi nella meditazione e nella preghiera. L’evangelista Giovanni utilizza il termine Spirito (pneuma) sia in senso teologico (lo Spirito come potenza divina generatrice) sia in senso antropologico (la nuova esistenza generata dallo Spirito). Da una parte vi è lo Spirito invisibile
e indeterminabile (come il vento appunto), e dall’altra gli effetti che egli produce nella vita dell’uomo, che sono sotto gli occhi di tutti e possono essere colti nella loro reale oggettività.
Accanto a questa duplice generazione da parte dello Spirito vi è poi il rinascere, a cui Nicodemo aveva fatto allusione in precedenza. Esso richiama l’importanza del ricominciare da capo, l’importanza, cioè, di un continuo processo di conversione, processo che tocca all’uomo mettere in atto. Tocca a noi, cioè, renderci vulnerabili alle sollecitazioni dello Spirito e rivedere o
risanare, alla sua luce, i nostri criteri valutativi, per evitare di strumentalizzare i segni di Dio e interpretarli piegandoli alle nostre pre-comprensioni.
In vista del grave compito a cui siete chiamati, quello di eleggere il nuovo Papa, vi invito a sottoporvi allo scrutinio dello Spirito perché, accolto docilmente nel vostro cuore e nella vostra mente, esso possa aiutarvi a rinascere, ossia a purificare tutto ciò che non collima – come direbbe l’Apostolo Paolo – con il pensiero di Cristo (1Cor 2,16b).
LA “STANZA AL PIANO SUPERIORE”
Con l’immagine del vento dello Spirito che soffia dove vuole, vorrei ora che spostassimo il nostro sguardo sulla “stanza al piano superiore” (cf. At 1,13; Mc 14,1; Lc 22,11-12), ossia quel luogo, a Gerusalemme, nel quale si sono consumati alcuni momenti fondamentali della vita di Gesù e della Chiesa. Come sappiamo, infatti, in quella stanza è avvenuta l’istituzione dell’eucaristia durante l’Ultima Cena di Gesù con i suoi (di qui il nome “Cenacolo”); lì Gesù risorto è apparso ai suoi; lì i discepoli, anche dopo la morte di Gesù, hanno continuato a radunarsi «perseveranti e concordi nella preghiera» (At 1,14); lì,
infine, è avvenuta l’effusione dello Spirito Santo, effusione che ha scardinato i sigilli della paura, spalancando e proiettando la Chiesa nascente sul mondo intero.
Nella “stanza al piano superiore”, dunque, il mondo di Dio viene ad intersecarsi in maniera speciale con quello degli uomini, gli apostoli di Gesù, esaltando le dimensioni della comunione e della missione, sulle quali vorrei ora attirare la vostra attenzione.
Nella “stanza al piano superiore”, la Chiesa nascente si scopre comunità raccolta attorno al Cristo che, nell’Ultima Cena con i suoi, anticipa nell’eucaristia il dono che di lì a poco farà di sé sul Calvario. Lì la Chiesa voluta da Gesù comincia a configurarsi – per dirla con le parole della Lettera agli Efesini – come un corpo che «ben compaginato e connesso, con la collaborazione di ogni giuntura, secondo l’energia propria di ogni membro, cresce in modo da edificare sé stesso nella carità» (Ef 4,16).
Soprattutto appare come la comunione che lo Spirito Santo edifica nella comunità dei credenti non sia frutto di una piatta e rigida uniformità. Al contrario, come l’apostolo Paolo descriverà anche nell’apologo del corpo (cf. 1Cor 12,12ss), l’unità e la comunione che la Chiesa è chiamata a vivere sono un’unità plurale e una comunione diversificata. In esse, cioè, l’alterità, non rappresenta l’anticamera di personalismi e polarizzazioni, ma è vista come una possibilità di confronto rispettoso e dialogico, di ricerca di cammini creativi da percorrere insieme «per fare della Chiesa – come già diceva san Giovanni Paolo II – la
casa e la scuola della comunione» (NMI, n. 43). Indubbiamente, però, quella della comunione rimane sempre una delle grandi sfide della Chiesa, oggi come ieri; una sfida che dobbiamo affrontare – sia ad intra che ad extra – «se vogliamo
essere fedeli al disegno di Dio e rispondere alle attese profonde del mondo» (Ib.)
In quest’ottica, sento di dover spendere qualche parola sul “cammino sinodale” intrapreso dalla Chiesa universale. È indubbio che, accanto a qualche perplessità o stallo, esso ha prodotto fiamme di partecipazione e di rinnovamento in ogni angolo del mondo. Credo che questo sia un chiaro segno dei tempi, un’azione dello Spirito che ci invita a promuovere, innanzitutto, una
saldatura feconda tra la linea gerarchico-istituzionale e quella rappresentata dai christifideles laici, in modo che ogni battezzato possa apportare il proprio contributo all’edificazione di una Chiesa-Koinonia. Essa, poi, lungi dall’arroccarsi in sé stessa, è chiamata ad essere – secondo una bella espressione attribuita a san Giovanni XXIII – la “fontana del villaggio”, il luogo,
cioè, in cui tutti gli uomini di buona volontà possano trovare, se non un radicamento nella fede, almeno una parola viva e fresca che dia senso e illumini il loro cammino.
Tuttavia, non può sfuggire al nostro sguardo il fatto che oggi l’ecclesiologia di comunione e il senso del “noi” ecclesiale siano messi a dura prova. Un individualismo imperante ha permeato di sé pressoché tutti gli spazi della vita quotidiana, nella quale i tempi e le attività ruotano preminentemente attorno all’“io”, con un inevitabile depauperamento di relazioni interpersonali
significative. E questo ha avuto un impatto anche nella vita della Chiesa. Proprio per questo motivo, approfondire il processo o cammino sinodale – che punta a rivitalizzare la comunione e la partecipazione all’interno del corpo ecclesiale – può rendere più efficace la missione stessa della Chiesa nei vari ambiti della società, grazie a quel circolo virtuoso che viene a crearsi tra
comunione, partecipazione e missione.
In fondo potremmo intendere il cammino o processo sinodale come una rivitalizzazione del cristianesimo inteso come “via”, così come lo percepivano le prime comunità cristiane, tratteggiate dagli Atti degli Apostoli (cf. 9,2; 19,9.23; 22,4; 24,14.22), le quali vivevano la propria fede cristiana come un modo di andare dietro a Gesù e di testimoniarlo al mondo.
A questo punto, però, non possiamo non rammentarci che la ricerca di comunione e di partecipazione, vissuta nel suo intimo legame con la missione della Chiesa nel mondo, richiede, quale suo presupposto, un costante e non facile processo di conversione dall’“io” al “noi”, che vada a toccare in profondità il tessuto umano e spirituale della nostra esistenza. Questo implica, infatti, il dover percorrere la strada, ancorché impervia, che conduce all’«uomo nascosto del cuore (o kruptòs tês kardías ánthropos)» (1Pt 3,4), là dove risiede il nostro “io” autentico, quello che, sottratto al culto idolatrico dell’immagine e
dell’effimero, siamo chiamati ad investire per il bene della Chiesa e del mondo, camminando insieme con i nostri fratelli e sorelle nella luce del Vangelo.
LE SFIDE DELLA CHIESA NEL MONDO
Ritorniamo ora alla “stanza del piano superiore”. Che la comunione sia al servizio della missione lo conferma chiaramente l’effusione dello Spirito Santo sugli apostoli. Essi – come chiosa l’evangelista Luca – «si trovavano insieme nello stesso luogo» (At 2,1), annotazione dalla quale deduciamo per prima cosa che lo Spirito Santo agisce in un contesto di comunione, e che è da tale contesto che nasce la missione. L’annuncio fatto dagli apostoli fuori del Cenacolo, il giorno di Pentecoste, acquista, infatti, una precisa connotazione missionaria e universalistica. È un annuncio, cioè, che fin da subito non conosce barriere di
sorta. Va da sé che, nel cambiamento d’epoca che stiamo attraversando, la missione della Chiesa deve affrontare numerose sfide, in parte inedite, presenti sulla scena del mondo.
Si pensi, ad esempio, al mutamento antropologico, che tocca in profondità la concezione dell’essere umano, e alla conseguente intensificazione e problematicità dei nodi etici e morali che si presentano. Si pensi allo stravolgimento delle regole che sostengono la coesistenza tra i popoli e alle sopraffazioni, lotte e guerre fratricide che ne derivano. Si pensi all’emergere di democrazie post-democratiche e al diffondersi di autocrazie e nazionalismi che scombussolano l’ordine mondiale. Si pensi all’insorgere di liberismi postcapitalisti che, basati sul puro profitto, non tengono in alcun conto la dignità della persona umana. Si pensi alla devastazione del creato, nostra “casa comune”. Si pensi all’impatto che l’avanzare delle tecno-scienze sta avendo sulla vita delle persone e all’inquietante prospettiva che un giorno si possa diventare succubi
dell’IA. Si pensi al fenomeno mondiale della migrazione e all’incapacità della politica di trovare soluzioni che rispettino il principio sacro dell’accoglienza, della solidarietà e dell’inclusione. Si pensi alla secolarizzazione pervasiva e invasiva
che – almeno nelle società occidentali – rischia di far scomparire Dio dall’orizzonte esistenziale di molti, in nome di una spiritualità vaga e self-made. Si pensi alla concezione esclusivamente tecnico-funzionale della vita, dove predomina l’utilitarismo e il conseguente disinteresse circa il significato da dare alla storia e al nostro destino.
Queste e molte altre sfide stanno davanti alla Chiesa, la quale è chiamata ad affrontarle a viso aperto e con parresia, e sostenuta da un sano discernimento che la porti a trovare modalità che rendano efficace la sua azione all’interno di
quegli snodi critici che la società in rapida trasformazione sta sperimentando.
In particolare, credo che la via del dialogo, nel quale la Chiesa è da tempo impegnata e che papa Francesco ha intensificato su tutti i fronti, debba essere perseguita senza timore. Essa è un elemento costitutivo della missione della Chiesa, chiamata com’è ad andare verso tutti e a riconoscere in ogni uomo e in ogni donna la terra familiare di Dio.
Che dire, poi, delle sfide che – pur avendo esse pure una ricaduta sociale – sono più propriamente inerenti alla vita interna della Chiesa e alla sua organizzazione? Per cominciare, molta strada è stata fatta nel prendere coscienza dell’esistenza nel suo seno di quella piaga purulenta rappresentata dagli abusi sessuali, piaga per la quale è stato chiesto perdono e per la quale sono stati messi in campo rimedi atti a debellarla.
Ma uno smarrimento generalizzato serpeggia nella Chiesa anche a proposito di altri ambiti della sua vita. Pensiamo, ad esempio, alla preoccupazione derivante dalla rarefazione delle vocazioni alla vita sacerdotale e religiosa; pensiamo alla ricerca faticosa di nuovi linguaggi e approcci pastorali che parlino in maniera efficace all’uomo di oggi; pensiamo al ripensamento del modello “parrocchia”, al ruolo della donna nella Chiesa; pensiamo al rischio sempre incombente del clericalismo, della burocratizzazione del ministero presbiterale, ma anche dell’iper-attivismo che soffoca la vita spirituale e dissecca il pozzo della preghiera.
Anche qui, si potrebbe proseguire nell’elenco delle criticità che attraversano il cammino della Chiesa, ma non è mia intenzione stilare un cahier de doléance, e tanto meno abbandonarci a una sterile autocommiserazione. Anche perché non va dimenticato – e questo ci dà conforto e ci sprona a camminare spediti sulle vie del Vangelo –l’immenso bene che la Chiesa compie a qualsiasi latitudine. Soprattutto, come non rimanere edificati dall’esempio di tanti nostri fratelli e sorelle che vivono in luoghi del pianeta in cui professare la fede cristiana comporta l’ostracismo o addirittura la morte?
Tutto ciò è un segno che la presenza viva del Risorto non cessa di accompagnare la sua Chiesa sui sentieri tortuosi e zigzagati della storia! Ma è anche un segno che in un mondo all’apparenza distratto, indifferente, pieno di egoismo e di contraddizioni, non manca la fame di autenticità, di bellezza, di bontà, di verità. E la Chiesa vuole andare incontro a queste aspettative, camminando al fianco dell’umanità accompagnandola incontro al futuro con la speranza nel cuore.
LA CHIESA COME “BOTTEGA”: WORK IN PROGRESS
Accanto alle metafore della “casa” e della “scuola”, rievocate sopra, vorrei offrirvi ora un’altra metafora o immagine che troviamo nel profeta Geremia, quella della bottega del vasaio. Dio è paragonato da Geremia al vasaio che tiene nelle sue mani l’argilla da modellare: «Ecco – scrive il profeta –, come l’argilla è nelle mani del vasaio, così voi siete nelle mie mani, casa d’Israele» (Ger 18,6).
Le mani del vasaio che lavorano l’argilla mirano a formare qualcosa che sia utile e funzionale, ma, nello stesso tempo, puntano anche a creare qualcosa che sia bello e significativo. Per questo motivo, pur di raggiungere un risultato soddisfacente, le mani del vasaio sanno convivere con la pazienza: «Se – scrive Geremia – il vaso che stava modellando si guastava, come capita con la creta in mano a un vasaio, egli riprovava di nuovo e ne faceva un altro, come ai suoi occhi pareva giusto» (Ger 18,4).
Per tornare a noi e al cammino della Chiesa – sia ad intra che ad extra – l’assunzione della pazienza è ciò che ci consente di perseverare, di non perderci d’animo e di non arrenderci di fronte agli insuccessi e ai fallimenti. Anzi, essa ci predispone ad imparare anche dai nostri errori, aiutandoci a guardare a questi ultimi non come a un punto morto, dal quale non è possibile ricavare alcunché, ma come a un punto dal quale è possibile ripartire per costruire qualcosa di più grande e di più bello. Del resto – come ci ha ricordato papa Francesco nella Bolla di indizione dell’Anno Santo – la pazienza ha molto a che fare con la
speranza, perché oltre ad esserne figlia è anche colei che la sostiene (cf. SnC, n. 4).
Per quanto paradossale possa sembrare, una Chiesa che sa pazientare è una Chiesa che sa sperare; una Chiesa che riconosce i tempi della pazienza è una Chiesa appassionata di futuro, di quel futuro da dove Dio continua a venirci incontro. Un futuro, tuttavia, che non è solamente quello che si fa presente, attuale e poi passa, ma quello le cui radici affondano saldamente nell’eternità di Dio.
L’elemento distintivo dei cristiani – scriveva Benedetto XVI nella sua Lettera Enciclica Spe salvi – è proprio «il fatto che essi hanno un futuro: (…) sanno nell’insieme che la loro vita non finisce nel vuoto. Solo quando il futuro è certo come realtà positiva, diventa vivibile anche il presente. (…) La porta oscura del tempo, del futuro, è stata spalancata. Chi ha speranza vive diversamente; gli è stata donata una vita nuova» (SS, n. 2). È la vita nuova che la Chiesa, luce e sale della terra, sperimenta ogni qualvolta, dietro al suo Signore, si sottopone docilmente ai raggi benefici dello Spirito!
CONCLUSIONE
Alla luce di quanto detto, permettetemi di tornare ancora una volta alla “stanza del piano superiore” già evocata. Mi piace immaginare che la Cappella Sistina, nella quale tra qualche giorno vi radunerete per scegliere tra di voi il Vescovo di Roma e Pastore della Chiesa universale, possa trasformarsi, appunto, nella “stanza del piano superiore” in cui, come in una rinnovata Pentecoste, possa fare irruzione il fuoco dello Spirito Santo Anche se il luogo del “conclave” – come dice il termine stesso – è un luogo chiuso a chiave, esso sarà in realtà spalancato sul mondo intero, se a prevalere sarà la libertà dello Spirito che, quando tocca i cuori e le menti, ringiovanisce, purifica, ricrea. Lasciate, dunque, che la luce dello Spirito incroci la vostra libertà; lasciate che entri in dialogo con voi, con il vostro mondo interiore e – tramite voi – con quel mondo così variegato e universale di cui siete espressione; lasciate che si insinui nelle pieghe dei vostri colloqui, dialoghi, confronti; e lasciate che trovi
posto anche nelle dinamiche, talora dialettiche, che caratterizzano ogni consesso umano, e dunque anche il vostro. Lasciate che sia davvero Lui, lo Spirito Santo, il protagonista principale, che sia Lui a plasmare i vostri cuori, ad accendere le vostre menti e a illuminare i vostri occhi perché possiate sentire, comprendere e vedere le meraviglie che il Signore sta per compiere per il bene della sua Chiesa e del mondo intero!
***
Ringraziandovi del vostro paziente ascolto, vi invito ad affidarvi a Dio e alla potenza e alla grazia della sua parola, e all’intercessione dei Ss. Pietro e Paolo e dei santi Pontefici che si sono succeduti lungo i secoli.
Vi invito ad affidarvi anche all’intercessione di Santa Caterina da Siena, di cui oggi, in Italia e in Europa, ricorre la festa liturgica. La sua totale appartenenza a Cristo – che chiamava “Pazzo d’amore” – e il suo coraggio nel mettere il Vangelo al di sopra di tutto, vi siano di esempio e di sprone. Soprattutto vi ispirino i suoi incessanti sforzi per la riforma e l’unità della Chiesa e per la pace, e il suo amore per il Papa, per il cui ritorno a Roma dalla cattività avignonese si prodigò strenuamente. Anche se è stata definita una rude ammonitrice di Pontefici, per via del suo linguaggio infuocato e non privo di rimproveri e minacce, il suo attaccamento al Papa era compenetrato di tenerissimo affetto. Per lei, infatti, il Papa era sempre e comunque il “dolce Cristo in terra”! Vi invito, infine, ad affidarvi anche alla Vergine Maria, che il suo Figlio e Signore nostro Gesù ha voluto Madre della Chiesa. Ella vi avvolga amorevolmente nel suo manto materno e vi custodisca nei giorni a venire. E così sia!