Il progetto “Health Care”, sostenuto dall’Agenzia italiana per la cooperazione allo sviluppo, aiuta le persone nella riabilitazione fisica e psicologica a mille chilometri dal fronte, nell’ovest dell’Ucraina. “Quando sarà raggiunta una pace, non sarà la fine ma l’inizio per noi”, dichiara ai media vaticani Mikhailo Pelep, direttore scientifico dell’ospedale
Vincenzo Giardina – Yasinya
L’amicizia è anche condividere un dolore. Interrogarsi su cosa è stato, come è stato possibile e perché. E poi cercare una speranza, ritrovare una via, provare a immaginare una felicità. «Capita la sera, ci ritroviamo proprio qui, accanto al fornello», dice Svetlana, 64 anni, occhi azzurri e una camicetta con orsetti e alberi di Natale: «Cuciniamo insieme e a volte parliamo».
Una nuova vita lontano dal fronte
Lei e Natalia si sono incontrate a mille chilometri da casa. «Qui le persone ci hanno accolte, c’è il riscaldamento e io che ho problemi di cuore ho anche i medici vicino», riprende Svetlana. La incontriamo al terzo piano, l’unico non ancora ristrutturato di questo ospedale a Yasinya, sul balcone panni in attesa della primavera sui monti Carpazi.ltra ascolta in silenzio o condivide le sue storie. È originaria di un’altra città dell’Ucraina orientale, passata sotto il controllo russo dopo l’offensiva militare di Mosca del 2022. Natalia ha 68 anni e una vita che non è pi «Sono originaria di Huliaipole» racconta. «La mia casa adesso non c’è più: è sulla linea del fronte e lì non è rimasto più nulla». Con Natalia parla spesso del figlio, che si è arruolato nell’esercito. L’aù come prima: «Di casa mia», sospira, «non so nulla».
Le due donne si sono incontrate qui, al terzo piano. Preparano insieme il borsh, la zuppa di barbabietola, e si fanno forza l’una con l’altra. «Non è facile, nonostante l’ospitalità che ci è stata riservata» riprende Svetlana. «Come sfollate riceviamo 2.000 grivnie al mese, circa 50 euro: non sempre bastano». Anche a Yasinya, nella regione della Transcarpazia, ad appena cento chilometri di strada dalla Romania e dall’Unione europea, le risorse sono sempre più limitate. Cambiata la politica americana con l’elezione del presidente Donald Trump, anche i Paesi dell’Ue stanno concentrando il supporto nelle zone prossime al fronte. Quelle più occidentali, meno esposte ai rischi di bombardamenti, si troveranno con meno aiuti nonostante abbiano accolto tante persone.
Sempre meno aiuti
«Prima c’erano molte organizzazioni pronte a donare cibo, medicine e altri aiuti, adesso non è più così» conferma Mikhailo Pelep, che ci ha accompagnato al terzo piano. È il direttore sanitario dell’ospedale, una struttura pubblica che potrebbe presto dover accogliere non solo altre persone sfollate, oltre alle 21 sistemate di sopra, ma anche nuovi pazienti. Nell’ospedale di Yasinya, infatti, nonostante fino a un anno fa si parlasse di una chiusura possibile, è stato inaugurato un reparto di riabilitazione. Pulegge, carrucole, cyclette e pedane stabilometriche computerizzate si trovano al piano terra, in fondo al corridoio, superate le due ambulanze e un nuovo poliambulatorio di telemedicina mobile all’ingresso. «Abbiamo ottenuto le certificazioni del ministero, assumeremo un fisioterapista e uno psicologo e potremo cominciare presto l’assistenza a pieno regime», riferisce il dottore. «Cureremo malati neurologici e ortopedici, persone ferite da schegge e proiettili di mortaio e probabilmente tanti soldati di ritorno dal fronte».
Il progetto “Health Care”
Il reparto di riabilitazione è stato realizzato grazie a un progetto denominato “Health Care for Safety and Rehabilitation”, che è parte di una serie di interventi di “emergenza” in favore della popolazione colpita dal conflitto con la Russia finanziati dall’Agenzia italiana per la cooperazione allo sviluppo (Aics) per un valore complessivo di oltre 46 milioni di euro. L’iniziativa “Health Care” è realizzata con organizzazioni e reti della società civile, nel caso di Yasinya in ascolto e dialogo anche con il sindaco, Andriy Delyatynchuk: il coordinamento è dell’ong italiana Missione Calcutta e partecipano poi l’arcivescovado di Ivano-Frankivsk, la Federazione degli Organismi di volontariato internazionale di ispirazione cristiana Focsiv, l’Opera don Calabria e la Fondazione aiutiamoli a vivere (Fav).
E non si tratta solo di macchinari appena consegnati. «Sono fondamentali la manualità e la capacità di comunicare, per insegnare al paziente a fare fisioterapia anche a casa», sottolinea la dottoressa Ljuba Andriuk. Otorinolaringoiatra, assumerà la guida del reparto grazie un corso di formazione specialistico che ha frequentato all’ospedale Sacro cuore Opera don Calabria di Negrar, a Verona. L’esperienza è stata parte del progetto di cooperazione sanitaria. «Settimane preziose», le definisce Andriuk, «sul piano delle tecniche di riabilitazione ma anche degli spunti per la cura psicologica dei pazienti». Un aspetto non secondario anche secondo Pelep. «Quando sarà raggiunta una pace, non sarà la fine ma l’inizio per noi», sottolinea il direttore. Pensa anche ai veterani, giovani e meno giovani, vite comunque travolte dalla guerra. «Non sappiamo in che condizioni torneranno», sospira Pelep. «Se avranno subito amputazioni, se il rumore delle esplosioni li avrà resi sordi oppure se saranno pieni di rabbia, magari perché sono stati in trincea e hanno rischiato la vita mentre chi gli è di fronte non ha attraversato la stessa prova».