Grazie al Centro diocesano di Ricerca-Azione sull’Alcologia (CEDIRAA), a N’Djamena, la lotta contro le tossicodipendenze riesce a far ritrovare senso e gusto della vita a tanti giovani. La direttrice suor Aurélie Roiné: “Molte donne, per ignoranza, danno alcol adulterato ai bambini. Con il nostro fragile aiuto restituiamo dignità e cresciamo noi stessi in umanità. Vivere il Giubileo è sentirsi raggiunti dalla solidarietà, perché l’accesso a istruzione, sanità e giustizia sia effettivo per tutti”
Antonella Palermo – Città del Vaticano
Il rifugio nell’alcol come via per anestetizzarsi contro durezze dell’esistenza che sembrano senza sbocco, mancanza di fiducia nel futuro, povertà, oppressione. Accade in maniera pervasiva in Ciad, uno dei Paesi più poveri al mondo, e che non gode dell’interesse mediatico internazionale. Provvidenzialmente qui c’è chi trova una buona ragione spendersi per lottare insieme contro una forma di dipendenza che avviluppa finanche i neonati.
L’alcolismo, un vero flagello che coinvolge anche i bambini
Suor Aurélie Roiné è una religiosa della congregazione delle Missionarie di Cristo Gesù, di origini francesi, e dirige a N’Djamena, capitale del Ciad, il Centro diocesano per la Ricerca-Azione sull’Alcologia (CEDIRAA). Quando è arrivata qui, nel 2018, ha subito scoperto che l’alcolismo era “un flagello” che distruggeva molte famiglie e bloccava lo sviluppo personale, comunitario e sociale. Agli ultimi posti dell’Indice di Sviluppo Umano, il Ciad ha una popolazione che in gran parte si butta nell’alcolismo per “dimenticare le sofferenze per qualche ora”. Negli ultimi anni sono proliferati i bar, anche nei piccoli villaggi, tanto che la produzione e la vendita di alcolici locali è rimasta l’attività principale per molte donne, soprattutto nelle fasce più povere della società. In alcuni villaggi sono pochissime le donne cattoliche che non si dedicano a questo commercio. Per ignoranza, molte di loro danno ai propri figli il bili-bili, un alcolico locale ricavato dal miglio, da bere al posto del porridge. Viene dato perfino ai neonati per “calmarli e aiutarli a dormire”, riferisce suor Aurèlie. Un fenomeno a cui si aggiunge il massiccio afflusso di bustine di alcolici adulterati che hanno letteralmente invaso il Paese. “Nonostante il divieto legale di questa vendita, i prezzi sfidano la concorrenza. Di conseguenza, anche i bambini li comprano sul ciglio della strada al posto delle tradizionali ciambelle”. Sono saltati tutti i codici culturali che regolavano il consumo di alcol invitando alla prudenza, spiega la religiosa, e addirittura l’abuso è diventato talmente elevato che molti giovani adulti vanno nei locali la mattina e si dimenticano di andare a lavorare.
Alcol adulterato, fenomeno dilagante e fatale
L’estrema povertà della popolazione rende introvabile l’alcol commerciale, ma non quello tradizionale. “Una confezione da 100 franchi di alcol adulterato equivale a 1.500 franchi di birra locale. Quindi non c’è paragone. L’impoverimento della popolazione locale sta portando a un fiorente commercio di alcol adulterato che, come suggerisce il nome, non contiene solo alcol ma anche altre sostanze altamente tossiche”. Che l’alcol uccida lentamente è un modo di dire ampiamente smentito dalla realtà, commenta ancora suor Roiné: “L’alcol uccide rapidamente e decima soprattutto i giovani. I servizi di emergenza ricevono sempre più segnalazioni di persone rimaste ferite in seguito a risse in cui è coinvolto un alcolista. Il problema è anche che la maggior parte della popolazione, compreso il personale di assistenza, non sa che l’alcolismo è una malattia e che i tossicodipendenti hanno quindi diritto all’accesso alle cure, che iniziano con l’accoglienza e l’ascolto senza giudizi”. Così la spirale di marginalizzazione sociale si fa così forte da diventare spesso fatale.
Il CEDIRAA, unico centro di tossicologia del Paese
Fu l’intuizione di suor Monique Lorrain, una consorella, ad avviare in Ciad nel 1999, insieme a una piccola équipe, un’opera di sensibilizzazione sugli effetti nocivi dell’alcolismo. Nacque così quello che sarebbe diventato il CEDIRAA il quale nel tempo ha diversificato il proprio impegno per rispondere alle esigenze che via via si sono andate manifestando. Attualmente il Centro, l’unico centro di tossicologia del Paese, riesce a far ricoverare in media cinque persone al mese: “Non è molto, ma non è niente. Per ogni persona trattata, una famiglia migliora e a volte anche un quartiere torna a vivere. È una realtà fragile ma ricca di progetti”. Il CEDIRAA si avvale di proiezioni di film, di fitness in strada, di dibattiti, di partite di calcio, di ascolto. Una esperienza che si sta diffondendo anche in altre province dove i vescovi chiedono formazione e impegno.
“Le donne che producevano alcol, una volta consapevoli degli effetti nocivi, ci hanno chiesto aiuto, il che ha portato all’introduzione di attività generatrici di reddito diverse da quelle legate all’alcol. I tossicodipendenti hanno cominciato a confidarci di voler smettere di bere, ma di non essere in grado di farlo da soli. Per questo abbiamo sviluppato un approccio assistenziale, con cure per l’astinenza e una serie di supporti psicologici e terapeutici. Le persone che accogliamo sono spesso giovani, del resto il Paese è molto giovane, di tutte le appartenenze religiose ed etniche, e dipendenti non solo dall’alcol ma anche da sostanze psicoattive come tabacco, cannabis, tramadolo. Sono troppo pochi i malati che riescono ad accedere alle cure, a vivere una vita dignitosa e a rimanere in vita. Ecco perché stiamo lavorando per formare non solo i volontari nel creare una coscientizzazione del problema, ma anche il personale sanitario a livello nazionale”.
William: rimesso in piedi, ha ritrovato i legami sociali
“Più di tre quarti delle persone seguite dal CEDIRAA diventano sobrie e ritrovano così il loro posto in famiglia e nella società”, racconta Aurélie. “Questo non significa che tutto diventi facile, anzi, la vita continua a non fare loro del bene, ma la libertà che riacquistano lontano dall’alcolismo ha molto gusto”. Per esempio, William, musulmano: il suo alcolismo aveva causato una frattura non solo con la famiglia, ma anche con gli amici. Il poco che riusciva a guadagnare con lavori saltuari, ricorda la missionaria, veniva subito speso in alcol. L’aiuto specifico del Centro lo ha piano piano restituito a una vita dignitosa.
“Da quando ha lasciato il trattamento, William ha cercato di riprendere il controllo della sua vita professionale, nonostante le difficoltà. Ha quindi partecipato a un programma di reinserimento, con un corso di base sulla conoscenza di sé, prima di intraprendere un corso di formazione per elettricisti. Ha rapidamente sviluppato il gusto di combinare riflessione e pratica. Così, oltre ai corsi di elettrotecnica, si è interessato al discorso in pubblico. Nominato dai suoi amici del programma di reinserimento, è stato lui a parlare davanti a un anfiteatro pieno il giorno del diploma”. Si tratta di conquiste inimmaginabili. “Quel giorno ho incontrato la sua famiglia – aggiunge Aurélie – con la quale avevamo gradualmente ristabilito i legami. Che gioia e che orgoglio è stato vedere il loro fratello, che credevano perduto per sempre, in piedi davanti a tutti”. Perché una postura di base, lo stare in piedi, con l’alcol è compromessa a ogni ricaduta. “Da allora, William ha cercato di avviare un’attività in proprio. Nonostante le difficoltà poste dall’ambiente locale, non si è perso d’animo e continua ad andare avanti. Finché non riesce a guadagnarsi da vivere con il suo mestiere, cerca lavoretti, spesso come custode. Almeno così riesce a mangiare tutti i giorni e, nonostante le basse paghe, cerca di risparmiare per acquistare materiale elettrico. Ringrazia la vita, nonostante le difficoltà passate e presenti”.
Recuperare il gusto della vita, crescere in umanità
“Da quando sono in Ciad, il campo delle dipendenze ha assunto per me una forte dimensione pastorale, con diverse sfaccettature”, racconta ancora la suora. Troppo spesso ha a che fare con persone rifiutate e disprezzate, e questo è ciò che la preoccupa di più. A volte il rifiuto arriva anche dai bambini per strada”, li stigmatizzano facilmente. Centinaia sono i volontari che si dedicano a questa missione, “molti in nome della loro fede”. La lotta contro le dipendenze è prima di tutto una lotta per aiutare le persone a “ritrovare il senso e il gusto della vita, recuperando una dignità spesso perduta, la propria umanità, riscoprendo di essere amati. Molti degli incontri che ho avuto in questo luogo di missione mi hanno anche aiutato a crescere in umanità, con tutta la sua umiltà, libertà e fraternità”.
Il Giubileo: speranza di giustizia, equità, fraternità
La testimonianza di Aurélie conduce al desiderio di toccarla con mano la sofferenza in Ciad che, secondo quanto lei condivide, è forte così come lo è la gioia, “che spesso la supera”. Questa forza vitale, dice, non solo è piena di speranza, ma è fonte di speranza. “Il Giubileo della speranza ci apre alla dimensione universale della Chiesa e ci fa entrare in comunione. È un vero sostegno sentire che non siamo soli, ma sostenuti gli uni dagli altri. Questa dimensione di solidarietà, così forte in Ciad, è bello sentirla anche al di là dei nostri confini. Il Giubileo ci ancorerà più saldamente al potere della preghiera”. E sottolinea ancora una volta che il Ciad ha un grande bisogno di giustizia, pace e fraternità che trascende le divisioni etniche e religiose. “Uomini e donne sono testimoni viventi che la speranza non solo è possibile, ma è una realtà a cui tutti possono contribuire per lo sviluppo di un Paese”. Deve essere però, precisa ancora la religiosa, uno sviluppo che integra quello personale di ciascun individuo, dove l’accesso all’istruzione, alla sanità e alla giustizia sia effettivo per tutti. “Forse siamo ancora lontani da questo, ma il Giubileo illuminerà il nostro cammino. Crediamo che Cristo sia l’Emmanuele, Dio con noi, che è venuto a condividere la nostra umanità, che cammina al nostro fianco”.