Lo avevamo già visto, già vissuto. Ma questa volta il copione è più violento, più spregiudicato, e forse anche più pericoloso. Donald Trump è tornato in scena, e lo ha fatto con il suo solito arsenale: slogan, muscoli e tariffe. Il 2 aprile, data battezzata “Liberation Day”, ha scatenato la tempesta: dazi simmetrici contro chiunque osi toccare il made in Usa. È la seconda stagione della guerra commerciale, ma con un mondo molto più fragile di quanto fosse nel 2018. Il primo effetto è stato tellurico. A Hong Kong l’indice Hang Seng è crollato del 13,22%: la peggiore seduta dalla crisi asiatica del 1997. Un’onda d’urto partita da Pechino, che ha risposto con dazi del 34% sulle merci americane, raddoppiati al 50% su alcuni settori. È l’effetto boomerang di un protezionismo senza freni, che fa sembrare la dottrina Trump più simile a quella di Smoot e Hawley – i due senatori che nel 1930 misero il mondo in ginocchio con i dazi che affossarono l’economia globale – che a una strategia moderna. Wall Street ha bruciato 5.380 miliardi di dollari in due sedute. E per una volta la finanza ha reagito in tempo reale, come un sismografo che registra l’arrivo di uno shock globale. «I mercati stanno facendo una sola cosa: scivolare verso una recessione mondiale», ha avvertito George Saravelos della Deutsche Bank. La narrativa di Trump è chiara: “America First”, “Make America Great Again”, “liberazione dai vincoli globalisti”. La realtà è più sfaccettata: le sue stesse aziende, spesso con filiere internazionali, verranno travolte. Apple, Ford, Boeing, General Motors: tutti vulnerabili. È il paradosso del neo-protezionismo americano. E anche il suo limite.
Ma il mondo ha imparato qualcosa dalla prima ondata di dazi? Poco, a quanto pare. L’Unione Europea è nel mirino. Trump punta a colpire 380 miliardi di esportazioni europee, dalla birra tedesca ai macchinari olandesi. Le nuove tariffe: 25% su prodotti alimentari, acciaio, alluminio, auto. Von der Leyen promette ritorsioni, ma non chiude la porta al dialogo. Tuttavia l’Ue è divisa: Parigi e Berlino vogliono rispondere colpo su colpo. Roma, Budapest e Amsterdam preferiscono la via diplomatica. E l’Italia? Sta a guardare. O meglio: cerca di non farsi troppo male. Il vicepremier Tajani lo ha detto chiaramente: «Trattare, evitare una guerra commerciale. L’Italia sosterrà la Commissione europea, ma serve una linea comune». Intanto i numeri preoccupano. Federalimentare stima una perdita di 700-800 milioni di euro solo sull’export agroalimentare. Pasta, olio, formaggi, vino: il fiore all’occhiello del made in Italy rischia grosso. Centromarca avverte: il 30% dei consumatori Usa ridurrà gli acquisti italiani. Coldiretti rilancia: l’impatto sui consumatori americani sarà da 1,6 miliardi. E nel frattempo cresce il fenomeno dell’Italian sounding: Parmisan, Tomato Sauce, prodotti finti venduti come autentici scimmiottando i marchi italiani. L’America non è più il centro di gravità di un sistema globale integrato. O meglio, lo è ancora, ma con dinamiche nuove: imprevedibili, instabili, ciniche. Il Financial Times è lapidario: «Il protezionismo americano sta smantellando un ordine economico costruito in settant’anni. È più pericoloso della Grande Depressione». C’è poi il lato oscuro della storia: quello degli interessi privati che si intrecciano con la politica. Trump ha rilanciato la sua società, la World Liberty Financial, affidandola ai figli. Ha lanciato una criptovaluta personale. Fa profitti con le decisioni pubbliche. Il conflitto d’interessi è servito. Ma nessuno, per ora, può fermarlo.
Anche gli alleati tremano. Il Giappone è colpito da dazi al 24%. Elon Musk invoca la fine di questa follia, e viene schernito dal ministro tedesco Habeck: «Parla per paura. È ridicolo». Il mondo intero è sull’orlo di un nuovo ordine, o forse del caos. E in questo caos, l’Europa si scopre ancora una volta impreparata. L’economista Monticini è chiaro: «Il dazio è una tassa sul consumatore. Trump sta tassando anche noi. Ma il caos potrebbe costringerlo a fare marcia indietro. L’Ue dovrebbe accelerare sugli accordi di libero scambio con altri partner». Il “Liberation Day” di Trump rischia di diventare una trappola globale. Il mondo si sta deglobalizzando a colpi di slogan. Ma non c’è nulla di liberatorio in questo ritorno al passato.