Ma davvero vogliamo liquidare in un amen l’amicizia, anzi la fratellanza, che lega noi europei all’America? Davvero vogliamo credere che l’epoca dell’atlantismo sia chiuso, archiviato, morto e sepolto sotto le sabbie mobili della geopolitica trumpiana? Su Repubblica Michele Serra, protagonista della manifestazione pro Europa del 15 marzo scorso, parla di presa d’atto, ma io non ci sto a liquidare una fratellanza che dura da secoli dopo due mesi di una stramba presidenza americana. Donald Trump e J.D. Vance ci accusano di essere antidemocratici e “parassiti”, d’accordo, e ci lanciano dazi come missili: ma di chi stiamo parlando? Di un palazzinaro newyorkese abituato a giocare a golf (sport europeo) in mezzo al kitsch di Mar-a lago, in Florida, e di un ex abitante istruito dei monti Appalachi, la “frontiera del nulla” che corre dalla Pensylvania all’Alabama. Dove i suoi “hillbilly”, i “burini di campagna”, come già li chiamava Bob Dylan in “Talking New York (1961), credono che la Ferrari sia a Dallas e non a Maranello, mangiano la carbonara con panna e aglio sminuzzando gli spaghetti col coltello e credono che il neorealismo sia un genere del cinema messicano. Verrebbe da dire: stiamo calmi. Andiamoci piano prima di recitare il de profundis ò con tutte le terribili conseguenze del caso – su un legame che dura dal 12 ottobre 1492, quando un genovese scoprì l’America.
Ci sono fili tenacissimi che legano l’Europa agli Stati Uniti. Un ordito tenace di memoria, scambi, affinità culturali, sedimentato nella storia, che resiste alle tempeste geopolitiche, anche quando i due partner litigano, si fraintendono, si allontanano. L’amicizia tra Europa e America non è un flirt passeggero da liquidare con un tweet. È una parentela vera, genetica.
L’America è nata dall’Europa. Non solo geograficamente — i padri pellegrini, tralasciando Colombo, salpano da Plymouth nel 1620. La Costituzione americana è figlia dell’Illuminismo europeo, la Rivoluzione delle 13 colonie britanniche si nutre delle stesse idee che animarono quella francese. Washington, Jefferson, Madison leggevano Montesquieu, Locke, Rousseau. Dall’altra parte dell’oceano Tocqueville si imbarcava per viaggiare in America e capire il futuro della democrazia.
I flussi migratori hanno portato milioni di europei negli Stati Uniti: italiani, irlandesi, tedeschi, francesi, greci, polacchi. I loro cognomi – Russo, Caputo, De Niro O’Connor, Muller, Kowalski, Papadopulos – riempiono gli elenchi telefonici degli Stati Uniti. Hanno costruito quartieri, identità, chiese, sindacati. Ancora oggi le radici etniche europee modellano l’identità americana. È impossibile capire Chicago senza gli irlandesi o New York senza i napoletani. La diaspora europea è diventata tessuto sociale dell’America. Attraversarla è come viaggiare in un atlante dell’Europa trasposto, in una geografia sentimentale degli immigrati: ogni città italiana, o quasi, ha il suo doppio in America e anche più. C’è una Bergamo in Texas e una in California, una Treviglio Drive nel Nevada, città battezzate Piedmont in California, Alabama South Carolina, Missouri e Oklahoma, fondate da immigrati che venivano da paesini in provincia di Alba, Asti, Cuneo o Vercelli.
Se l’Europa ha dato all’America sangue e pensiero, l’America ha restituito influenza culturale, modelli economici, linfa vitale. L’Us Army ci ha salvato dalla ditattura nazifascista, quando l’Europa bruciava nel fuoco e l’Inghilterra stava per soccombere contro Hitler. Churchill con la sua ironia proclamava che Stati Uniti e Regno Unito sono due popoli fratelli divisi da una lungua comune. Il Piano Marshall aiutò l’Europa stremata a risollevarsi. Dal Dopoguerra in poi, la potenza americana ha conquistato l’immaginario europeo: Hollywood, Coca-Cola, jazz, blue jeans. Noi incompenso abbiamo esportato la moda, l’arte, la cucina, la pizza, gli sport, la cultura, la musica classica. Insomma: la bellezza.
Sul piano economico, il vincolo è altrettanto saldo. Stati Uniti e Unione Europea sono i due principali partner commerciali al mondo.Gli scambi commerciali tra l’Unione europea e gli Stati Uniti rappresentano una delle relazioni economiche più significative a livello globale. Nel 2023, il valore totale degli scambi di beni e servizi tra le due economie ha superato i 1.600 miliardi di euro Le multinazionali si muovono su entrambi i continenti. La NATO, nata nel 1949, è stata il pilastro della sicurezza europea per settant’anni. Senza il Trattato atlantico la guerra fredda avrebbe avuto chissà quale esito. L’interscambio tra le industrie belliche americane e quelle europee è nettissimo e non si vede come si possa interrompere, ci sono basi americane ovunque nel Vecchio Continente. Sul piano dell’istruzione, le due sponde dell’Atlantico continuano a specchiarsi l’una nell’altra. Le università americane sono meta ambita per gli studenti europei, e viceversa. Anche la Chiesa cattolica americana ha sempre promosso il dialogo tra le due sponde dell’Atlantico. Uno dei suoi simboli è certamente l’arcivescovo di New York Francis Joseph Spellman.
In un mondo sempre più dominato dall’asse russo-cinese, con guerre che ridisegnano le mappe del potere, quel filo invisibile che lega Europa e America rimane la nostra ancora. Tagliare con gli Stati Uniti sarebbe come tagliarsi un arto. Perciò andiamoci piano. Prima di rottamare l’amico americano, domandiamoci se siamo pronti a restare soli, disarmati e afoni. In un mondo dove la democrazia si difende con più di qualche hashtag o qualche tweet. Se molliamo l’amico americano solo perché oggi balbetta, domani con chi parleremo, quando il mondo sarà sempre più un duello tra Pechino e Mosca?