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Giulia De Florio: “La guerra per i russi è un collante identitario forte. E Putin lo ha capito”



Giulia De Florio, 40 anni, docente di Lingua e cultura russa e presidente di Memorial Italia.

Un quarto di secolo al potere. E’ quello di Vladimir Putin, che il 26 marzo del 2000 è stato eletto per la prima volta presidente della Federazione russa e da allora è rimasto saldamente al comando del Paese – nel ruolo di leader del Cremlino e, per un mandato, in quello di premier – trasformando progressivamente la Russia in un regime sempre più autoritario e dittatoriale. A fare un’analisi dei 25 anni di potere di Putin è Giulia De Florio, docente di Lingua e cultura russa all’Università di Parma, scrittrice, traduttrice, presidente di Memorial Italia, la “filiale” italiana della Ong Memorial fondata in Russia che denuncia i crimini del regime sovietico e, oggi, le violazioni dei diritti umani, Premio Nobel per la pace 2022. 

Venticinque anni al comando della Russia in modo incontrastato, senza una reale opposizione. Come e perché è avvenuto?

«Nella Federazione russa attuale agli inizi degli anni Duemila non si sono affermsti i processi democratici che sottendono un cambio di potere con una certa frequenza o che comunque assicurano questa possibilità. Benché formalmente anche in Russia questa possibilità di fosse, abbbiamo visto che il Paese è diventato sempre di più una finta democrazia- Le istituzioni democratiche non sono mai calate dall’alto, ci vuole un’abitudine. E la popolazione russa non ce l’ha avuta. Gli anni ’90 sono stati un periodo di forte sbilanciamento dei poteri: se pensiamo che nel ’93 il Parlamento a Mosca veniva bombardato dai carri armati, è chiaro che l’idea di democrazia incarnata nelle istituzioni era sicuramente molto debole. Dunque il regime che vediamo oggi è certamente il risultato di un’eredità storica e di una serie di fattori geografici, territoriali, a partire dalla vastità del territorio russo, la disuguaglianza al suo interno, il fatto che la grande magioranza della popolazione sia di ceto basso mentre una piccola éliute nella capitale e a San Pietroburgo detiene la ricchezza e il potere».

Molti affermano che il popolo russo storicamente si affida alla figura del leader, dell’uomo forte. Questo spiegherebbe l’ascesa di Putin e la longevità del suo potere. E’ così?

«Spesso si parla di popolo russo, ma in realtà questa definizione a mio avviso non è corretta perché tende a dare omogeneità a una insieme di persone in uno Stato che non sono affatto omogenee assimiliabili. Questa, comunque, è una delle interpretazioni di cui si sente parlare di più: la teoria dell’uomo forte, che fosse lo zar, Stalin o Putin. Io non mi azzardo a dire che sia davvero così. Ciò che posso vedere è che nella storia della Russia i rapporti tra cittadini e Stato, dall’esperienza sovietica in poi, sono sempre stati di totale mancanza di fiducia da parte dell’individuo nei confronti dello Stato che dovrebbe rappresentrarlo, di indifferenza e mancanza di volontà di partecipazione. Questo è ciò che è avvenuto anche con il regime di Putin. La popolazione russa tende a non immischiarsi negli affari statali e non vuole che lo Stato a sua volta si immischi negli affari privati dei cittadini. Questo è stato molto chiaro durante la pandemia del Covid: nessuno in Russia voleva vaccinarsi perché, nonostante su questa materia Putin avesse larrgo consenso, quello che arriva dall’alto, dallo Stato per il cittadino russo è sempre qualcosa che genera sospetto. Un atteggiamento che comunque poi non impedisce alle persone di votare per Putin, di sostenerlo anche se in modo astratto. Finché gli interessi personali non vengono intaccati, il cittadini russo non si intromette nelle questioni politiche. Un modo di fare che, di contro, implica che non ci sia mai una reale partecipazione attiva nella politica intesa come gestione della cosa pubblica. E che ha favorito l’affermazione di una figura come quella di Putin». 

Quindi il consenso dei russi nei confronti di Putin è ancora, di fatto, molto elevato?

«Se per consenso intendiamo allineamento o comunque non dissenso, allora è sicuramente alto. Come poi questo consenso venga ottenuto è un altro discorso. Il consenso per Putin viene ottenuto con una politica del terrore, della paura e della repressione che elimina ogni forma di dissenso aperto. D’altro canto, c’è anche una grande forza attrattiva nella costruzione della narrazione di cos’è la Federazione russa oggi: la guerra è un collante identitario enrome, lo è sempre stato e questo Putin lo sa bene. L’insistenza sulla militarizzazione, sull’aggressività, sulla forza del Paese è un motivo che risuona emotivamente nei cittadini russi. Putin, del resto, è salito al potere con la seconda guerra in Cecenia in corso e ha dato prova di saper gestire una guerra, impressionando i russi. Poi sono arrivati i conflitti seguenti. Sulla guerra poggia molto i’dea di Federazione russia che Putin offre ai cittadini, ovviamente sostenuta da una macchina della propaganda potente. Possiamo individuare un passaggio molto importante nel modo di ragionare dei cittadini russi: lo slogan diffuso negli anni ’90  rispetto alla guerra era “purché non si ripeta più”, perché quelle generazioni avevano bene in mente cosa era accaduto nella Seconda guerra mondiale. Da un certo punto in poi si è cominciato a sentire lo slogan “lo possiamo ripetere”, ovvero possiamo tornare a vincere. Vale a dire, se provate a toccarci, noi siamo pronti a reagire con forza. Questo è un punto chiave nel cambiamento della percezione di sé da parte dei russi: l’idea di una nazione che vuole riappropriarsi di una forza e di una importanza che, nella narrazione putiniana, le è stata sottratta. Su questa percezione si è fondata l’invasione e la guerra all’Ucraina. Nel momento in cui un leader muove un passo del genere sa di avere un consenso, un’approvazione quantomeno formale».  

Poi però ci sono le tante voci di dissenso interne, che magari da noi faticano ad essere conosciute, tranne alcuni casi più famosi come quello di Aleksej Navalny. Memorial calcola che ci siano 683 prigionieri politici nelle carceri russe.

«Sono voci che ancora di più in un momento così buio non vanno sottovalutate e dimenticate. Va ricordato che il consenso spesso non corrisponde a un’adesione totale a un sistema politico, bensì a un atteggiamento passivo di non partecipazione, dettato dalla paura delle conseguenze, dei rischi che si corrono nel momento in cui si esprime il dissenso (il carcere, la persecuzione). Ecco, nella storia russa è mancata spesso quell’assunzione di responsabilità basata sulla convinzione che la tua azione di individuo abbia un effetto sulla politica e sulla società. Un atteggiamento che viene insegnato dalla democrazia».

(Foto Ansa: il presidente della Federazione russa Vladimir Putin)





Dal sito Famiglia Cristiana

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