Lo sguardo limpido di Don Luigi Ciotti punta sempre avanti, lo fa mentre parla in pubblico, ma anche mentre si racconta davanti ai resti della tavola condivisa di un pranzo preparato per collaboratori e ospiti da lui, in persona, appena rientrato a Torino da Bolzano. Il 2025 segna i 30 anni di Libera e i 60 del Gruppo Abele, esperienze unite nella sua persona dall’urgenza di restituire una voce, un nome, un ruolo ai dimenticati. Sembra vedere sempre oltre. A volte lo diresti perso dietro ai pensieri e invece è sempre presentissimo, ovunque sia il qui e ora, con una memoria impressionante per ciascuno, con una stupefacente attenzione al singolo, che spiega tante cose compresa quella lista di nomi di vittime innocenti, non una di meno, che si allunga sempre un po’: «La burocrazia», riflette con rammarico, «chiama casi, numeri, quando non emergenze le persone che bussano alle nostre porte, spersonalizza tutto. E invece il nome è il primo diritto della persona”».
Qui si saldano lo spirito del gruppo Abele, che si occupa di accoglienza, dipendenze di ogni tipo – sostanze, gioco d’azzardo, ragazzi chiusi nel digitale, quello di Libera, l’associazione di associazioni antimafia annunciata per la prima volta il 14 dicembre di 30 anni fa, e quello del 21 marzo giornata della memoria e dell’impegno per le vittime innocenti di tutte le mafie. Tre cifre tonde si danno appuntamento nel 2025, anno degli anniversari incrociati: i 60 anni del Gruppo Abele, i 30 di Libera e gli 80 di don Luigi, fondatore di tutto, che si schermisce: «Io sono una piccola cosa, tutto è frutto di un “noi”».
Alla fine il senso è ancora tutto lì in quel nome Abele: «All’inizio avevo scelto Gioventù impegnata, non ero ancora prete, ma era un nome presuntuoso, quando si è trattato di formalizzare ho ripensato al titolo di un documentario di Zavoli dedicato alla rivoluzione di Basaglia a Gorizia, i Giardini di Abele: non è per dividere buoni e cattivi, anzi nelle nostre comunità Caino e Abele si incontrano. È che anche a noi, come a Caino, Dio Chiede “dov’è tuo fratello?”. Non possiamo rispondere “Non lo so”, non in un mondo in cui la tecnologia ci dice tutto di vicini e lontani».
Don Luigi Ciotti si alza un attimo, stacca dal muro del suo studio – ambiente colorato e vissuto il tanto che basta a renderne plasticamente l’attività incessante di cui è testimone – una foto appesa in una cornice a giorno e ne legge la dedica a pennarello nero sul retro: “A Luigi da parte di Roberto che incontrò Caino e vuole stare qui con Abele, Torino 21-10-95”, l’allusione è al Gruppo Abele il cui quartier generale a Torino è sede anche di Libera: «L’ha scritta Saveria Antiochia, madre di Roberto (agente di scorta morto a 23 anni, nell’attentato a Ninni Cassarà cui ha provato a fare scudo ndr)». Senza l’innesco di un “perché” lanciato a don Luigi da parte della mamma di Antonio Montinaro, agente di scorta di Giovanni Falcone, dilaniato a Capaci, e senza l’impegno di Saveria Antiochia forse non ci sarebbero la Giornata della memoria e dell’impegno in ricordo delle vittime innocenti di tutte le mafie e Libera di cui ricorrono quest’anno i trent’anni.
Ne è passato più di uno da quando ci siamo detti, a margine di una serata milanese, che questa chiacchierata sarebbe dovuta avvenire: «Va bene, ma parliamo del presente e del futuro, non solo del passato». L’incontro è avvenuto a fine novembre 2024, in tempo raccontarlo sul numero di Famiglia Cristiana in edicola in coincidenza con il trentennale dell’annuncio della nascita di Libera, il 14 dicembre 1994, qualche mese prima della fondazione ufficiale: «Aveva ragione Tonino Bello», riflette don Luigi con la voce bassissima come parlando a sé stesso, «non bisogna diventare professionisti della lamentela, ma ci sono dei momenti nella vita in cui tacere diventa una colpa e parlare un obbligo morale, una responsabilità civile, un imperativo etico, non possiamo tacere. Però bisogna farlo in un modo pulito, documentato, serio: non basta la denuncia, serve un progetto: per esempio, da cinque anni, qui abbiamo aperto una scuola Laudato si’, laudato qui, per insegnanti, educatori, cittadini, sacerdoti, giovani, adulti con scienziati, ricercatori, italiani e stranieri ci si forma sul tema della casa comune, scuola e azione, altrimenti diventano slogan. Ci sono weekend pieni di persone che vengono a formarsi e poi moltiplicano questa coscienza. Non bastano i cortei, serve cultura, formare i formatori».
Quanti chilometri ha percorso in 30 anni di Libera? Era così che se l’era immaginata quando il suo vescovo ordinandola le ha assegnato come parrocchia la strada?
«Padre Michele Pellegrino mi mandò sulla strada per imparare dalle fatiche delle persone e prendere per mano le più sofferenti. E la strada è stata davvero per me maestra di vita, attraverso l’incontro con la povertà, i bisogni e le speranze della gente. Una strada da abitare e poi anche da percorrere: migliaia di km per accompagnare il cammino di tanti altri verso la verità e la giustizia. Libera è un coordinamento di associazioni, e tenere le fila di un impegno plurale significa anche andare lì dove quell’impegno tenacemente accade».
Ha cominciato 60 anni fa con il Gruppo Abele, com’è cambiato da allora? Quando esattamente ha capito che la mafia era un tema importante per tutto il Paese?
«Fin dai primi anni di impegno sul problema delle droghe, della prostituzione, della giustizia penale minorile. L’aiuto che offrivamo alle persone talvolta dava fastidio, subivamo minacce e atti di d’intimidazione da parte della piccola criminalità locale, di cui disturbavamo gli affari. Ma era chiaro che quella era solo la punta dell’Iceberg. Non dimentichiamo che il procuratore di Torino bruno Caccia venne ucciso dalla ‘ndrangheta nel 1983! Già allora si sapeva che le mafie spadroneggiavano ovunque e non a caso il nostro primo passo concreto per esporci anche su quel tema fu la fondazione del mensile di approfondimento Narcomafie (oggi La via libera, ndr.). Dicevamo allora che ogni morto di droga era un morto di mafia. Non è forse ancora vero? In sessant’anni gli scenari sono molto cambiati, ma l’impatto tremendo della criminalità mafiosa sulle vite delle persone rimane tragicamente attuale».
Il suo peregrinare la porta spesso in terre di mafia vecchie e nuove: ha mai paura di trovarsi inconsapevolmente a stringere mani sbagliate?
«Ci sono stati degli imbarazzi, a volte. E non soltanto nelle “terre di mafia” che uno potrebbe immaginare, perché come dicevamo le mafie sono ovunque, e ovunque riescono a infiltrare gli ambienti cosiddetti “insospettabili”: alta borghesia, uffici pubblici, il mondo degli affari e persino quello dell’impegno sociale».
Nelle cooperative, nella solidarietà, persino nell’antimafia abbiamo visto infiltrarsi la criminalità, che cosa prova quando accade?
«Più sdegno che sorpresa. Già molti anni fa la Commissione parlamentare antimafia, all’epoca guidata da Rosy Bindi, testimoniò l’esistenza di associazioni antimafia… gestite come copertura da esponenti mafiosi. Questo mimetismo ci obbliga a prestare sempre la massima attenzione, e fiutare dove c’è un attivismo autentico e dove invece una vuota enfasi che piega parole come “legalità” allo scopo esattamente contrario».
Rispetto a quando libera è nata le mafie si sono inabissate, si fanno notare meno, Alessandra Dolci capo della Dda di Milano racconta spesso che le rispondono: “mafiosi noi? Ma noi facciamo affari”. È più difficile coinvolgere la società civile in assenza di azioni eclatanti?
«Purtroppo pare di sì. I dati più sconfortanti sono quelli che elaboriamo ogni anno insieme a Demos, sulla percezione del fenomeno mafioso a livello sociale. Questi dati ci parlano di un crimine organizzato che diventa sempre più “crimine normalizzato” nella testa di tanti italiani. Qualcosa con cui tocca convivere, e che in fondo non spaventa. Il problema è che i cittadini non colgono quanto l’enorme furto di bene comune perpetrato dai mafiosi e dai loro fiancheggiatori e imitatori – sì, ormai un certo modo di fare impresa, fare finanza, si ispira apertamente ai metodi criminali! – impatti negativamente sulle loro vite. Parliamo dell’impoverimento generale e dei morti indiretti: i morti di droga, di malasanità, di insicurezza sul lavoro e, altrove, di traffico d’armi o tratta degli esseri umani. Come si può restare indifferenti a tutto questo?».
A un ragazzo che si chiede che cosa posso fare io, piccolo, contro questa criminalità che continua espandere i suoi confini che cosa si sente di rispondere?
«Puoi imparare a riconoscerla, intanto. A capire come si muove, cosa la agevola. Puoi riconoscere i comportamenti mafiosi intorno a te e, come scriveva una giovanissima vittima di mafia, Rita Atria, persino “dentro” di te. Puoi scegliere di ripulirti da quei comportamenti, e lottare per una società più pulita, a partire dai mondi che ti sono vicini: gli amici, la famiglia, la scuola. Puoi dire apertamente di no a tutto quello che ti sembra calpestare la dignità delle persone, approfittare delle loro debolezze, mettere a rischio l’ambiente o la salute… Puoi essere una sentinella di giustizia, contro chi crede che l’ingiustizia sia inevitabile e vincente».
Un prete ha una responsabilità in più?
«Il compito di un sacerdote è guardare al Cielo, a Dio, senza mai dimenticare le responsabilità a cui ci chiama la Terra. Gesù ci ha incaricati di dare speranza ai poveri, agli ultimi, e la sfida è far dialogare il Suo Vangelo con la storia di oggi. È allora sempre necessaria una saldatura fra la fede nella sua dimensione spirituale e in quella etica, che chiama anche noi sacerdoti a un impegno politico inteso in senso lato come servizio al bene comune. Qualunque cristiano dovrebbe vivere la giustizia come aspirazione non solo individuale, ma sociale. Però il prete ha in più un ruolo di testimonianza: non può nascondersi, deve essere chiaro nelle parole e trasparente negli atti».
Alle soglie degli 80 dopo tanto peregrinare, le capita mai di sentirsi sopraffatto da tutto il dolore di madri, padri, figli di cui è stato testimone?
«Certo, le sofferenze degli altri ti restano dentro. Ti scavano, ti smuovono tanti dubbi. Ma poi vedi che proprio chi ha patito i più gravi lutti è in grado a volte di rialzarsi per dare forza agli altri. Penso a tanti famigliari di vittime innocenti delle mafie, che hanno saputo alimentare la memoria e l’impegno dei loro cari uccisi, impegnandosi a loro volta. Li vedo alle manifestazioni, nelle scuole, nelle carceri minorili: testimoni instancabili, che invece sopportare il dolore come un peso, lo portano in giro come un messaggio di vita».
Che cosa rende giustizia a questo mondo?
«A rendere giustizia al mondo è come sempre l’impegno di chi, quella giustizia, prova ad affermarla nella concretezza della storia. Un impegno che non può restare di pochi, ma deve essere sempre più trasversale e collettivo. Dobbiamo prendere coscienza che è necessario unire le nostre forze, per diventare insieme una forza propositiva di cambiamento. Dobbiamo costruire insieme il bene comune, cioè il bene di tutti, un bene che non esclude ma include e abbraccia le speranze di ognuno. Occorre fermare la valanga etica di un pezzo di mondo che abbandona alla deriva l’umanità più povera e fragile, le persone affamate, discriminate, oppresse, migranti. Persone che non sono libere, perché la libertà è appunto figlia della giustizia».
Che cosa le dà speranza?
«Sono loro: tutti coloro che non si rassegnano alle ingiustizie e ai mali di questo mondo. I volti, le storie delle persone sono i fari del nostro cammino e le stelle del cambiamento, quello che ci dà le coordinate dell’impegno e ci indica il cammino da seguire per costruire un mondo dove la speranza torni a essere bene comune. Perché la speranza o è di tutti o non è speranza. Oggi, mi dà speranza sapere che questa strada continuerà dopo di me, e forse qualcuno sarà indirizzato nel suo cammino anche dalle orme che ha lasciato il mio».
Uscendo si incrocia una lavagnetta, vecchia maniera, col gesso la scrittura rotonda di don Ciotti che abbiamo visto in tanti appunti – e a volte persino in qualche intervista (non questa) con risposte mandate al volo da fogli scritti a mano e fotografati -, ha tracciato una frase che tiene insieme tutto: «La speranza o è di tutti o non è speranza, Luigi».