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Le storie degli atleti, “eroi” di resilienza, e il ruolo (cruciale) dei volontari

Lo aveva detto senza scaramanzie, Lisa Guerrera, 25 anni, sciatrice, ai Giochi mondiali invernali Special Olympics, per atleti con disabilità intellettiva per le gare di sci alpino, al termine della pista di Sestriere ancora con gli sci ai piedi appena scesa dal divisioning, la qualificazione che inserisce gli atleti nella gara adatta alle loro abilità: «La gara è andata bene», raccontava, soddisfatta della prestazione: «Ma domani vado più veloce». Detto e fatto: oro nel gigante e argento in SuperG.

A differenza della maggior parte degli atleti sciatori qui Lisa non è nata accanto alle piste: «Abito a Lecco, lavoro come operaia», ha raccontato: «ma abbiamo casa a Pian delle Betulle ed è lì che a quattro anni ho iniziato a sciare. La cosa davvero bella dei Giochi mondiali invernali special Oympics è che ci sono atleti di tutte le nazionalità e mi diverto a gareggiare. Ci sono tutti i miei familiari a fare il tifo».

Guerrera a Torino 2025 si è iscritta a tutte e quattro le gare compresa la discesa libera: «Sofia Goggia è la mia idola, quando ha saputo che venivo ai Mondiali mi ha mandato anche un video di incoraggiamento. Una grande emozione».

Le famiglie nell’avventura Special Olympics sono importanti, sono le prime a incoraggiare i figli allo sport quando i figli sono piccoli. Mentre parlavamo con Lisa Guerrera una famiglia messicana al completo tutta equipaggiata con sombreri multicolore festeggiava la giovane atleta di casa, una figlia, una nipote, travolgendola di abbracci, ricambiati. Non tutti gli atleti Special Olympics sono giovani, non c’è limite di età per partecipare, i criteri con cui invitare li decidono le articolazioni nazionali degli Special Olympics international.

Special Olympics Italia chiede di aver partecipato almeno ai precedenti Giochi nazionali e il criterio è in parte sportivo in parte di autonomia, di progresso personale.

La finalità ultima non è solo la gara o il risultato sportivo, ma la conquista di un passo in più di autonomia nella vita oltre il campo di gara. Per questo ai Giochi chi partecipa, anche se ha le famiglie al seguito, non vive con negli stessi alloggi dei familiari ma durante la manifestazione sta con i propri compagni, con i coach, con la delegazione, come avviene a Giochi olimpici e paralimpici.

Perché la manifestazione sia possibile, servono tanti volontari: Torino 2025 ne ha reclutati 3.000 a fronte di 1.500 atleti. Ce ne sono di stabili, che provengono da tutto il mondo e magari rimangono per tutta la manifestazione, altri che ruotano, come i ragazzi delle scuole in alternanza scuola-lavoro, o i dipendenti di Coca-Cola, socio fondatore di Special Olympics dal 1968 e sponsor globale da allora almeno al 2031, che si prestano per alcuni giorni: smistando il traffico nelle sedi di gara, servendo a mensa se capita. «Ci sono volontari che avevano già partecipato all’Olimpiade di Torino 2006», racconta proprio sotto la pista di gara a Sestriere, Fulvia Tiboldo, che li coordina, «Il primo approccio alla formazione è culturale, si deve imparare che cosa è Special Olympics, poi si imparano i compiti, alcuni più semplici, come controllare i pass o dare indicazioni degli spazi riservati alle varie categorie, altri più complessi come la gestione di 900 paia di sci da inserire nei container deposito dopo la gara senza fare errori o la memorizzazione del rigido cerimoniale delle premiazioni, che sono un evento molto importante per gli atleti special Olympics (tutti ricevono un premio, anche se poi si assegnano oro, argento e bronzo a chi arriva primo, ndr): per molti partecipare a quel cerimoniale, avere un momento di protagonismo, è un’esperienza unica di considerazione ricevuta».

Non in tutti i Paesi c’è la stessa attenzione e la stessa considerazione, molti mancano di strutture e per alcuni Special Olympics e il suo Health program, in concomitanza con le gare, è la sola occasione per avere un check-up completo. Chiediamo quanto complicato sia rapportarsi a tante variabili: «Può sembrare difficile», spiega Fulvia, «ma se ti metti in dimensione di ascolto, gli atleti Special Olympics ti fanno capire come desiderano essere avvicinati: c’è chi chiede un abbraccio e te lo fa intendere, chi preferisce non essere toccato e in qualche modo si fa capire anche se magari non parla. Tra loro stessi che hanno lingue diverse, e a volte comunicano in modi non verbali anche a casa, trovano una via di relazione».

Basta guardarli a fondo pista per capire che è vero. Basta osservare la giovanissima atleta australiana che, a fine gara, dà il 5 a tutto il pubblico mentre passa anche a chi non conosce e l’alta ragazza canadese che sfila via velocissima guardando dritto davanti a sé. E al Palatazzoli sulla pista dello short track la scena più bella è quella delle più anziane avversarie che all’arrivo attendono, applaudono e incoraggiano la giovanissima doppiata rimasta indietro di qualche giro, perché concluda la sua gara.

«Il momento migliore nel coordinamento dei volontari» racconta Tiboldo riguardo all’esperienza degli studenti delle scuole piemontesi e valdostane in alternanza scuola lavoro, come i due del Prever di Pinerolo che abbiamo incontrato per primi e ci hanno indicato la strada, «è quando ragazzi normodotati si rendono conto di quando ricevono dagli atleti».

Questo concetto del ricevere più che dare ricorre in tutti i volontari, ma non solo in loro: «Mi sono avvicinata a questo mondo tanti anni fa grazie a mia figlia: amavo sciare, sulle piste ho conosciuto mio marito, era un’epoca in cui ancora si pensava che la disabilità intellettiva dovesse restare reclusa negli istituti: abbiamo cominciato a portarne alcuni ragazzi a sciare, a nuotare e adesso, a 79 anni, eccomi qui, come Coach ai Mondiali per la prima volta», racconta Anna Maria Mariani, «e mi rendo conto che se non ci fossero stati gli atleti Special Olympics quando è mancato mio marito il mio mondo si sarebbe sgretolato e invece grazie a loro sono ancora sugli sci, con la protesi a un ginocchio e in procinto di mettere la seconda».

Le difficoltà non si negano, sono parte di questo mondo come di tutti i mondi insieme alle conquiste: «Non so se si impari», racconta Elena Viviani, tosta e franca allenatrice, nella pancia del Palatazzoli, a Torino al seguito degli atleti che disputano la gara con le ciaspole: «Un po’ sì, bisogna esserci portati. E mettere in conto che può capitare di perdere anche la pazienza. La cosa sbagliata è il pietismo del ‘ma sì, poverino’, che lascia tutti al punto in cui sono perché non fa crescere: se vuoi aiutare nell’autonomia devi saper anche dire dei no, insegnare con il linguaggio adatto le regole del gioco e della vita. Se un comportamento è maleducato per gli altri, bisogna insegnare che non si fa. Se a tavola uno chiede tre piatti di pasta, si spiega che se si è atleti anche Special Olympics occorre mangiare in modo corretto. Solo così si conquista autonomia vera e si rispetta la dignità della persona, il ‘ma sì, poverino lascialo fare’ non è dignità».

Si capisce questo e anche che lo spirito olimpico, senza aggettivi, è tornato a soffiare a Torino nella pancia dell’Invalsi Arena, il pala Isozaki di Torino 2006, mentre sono in corso le partite di floorball, variante dell’hockey, ma da palestra, dove si incontrano squadre unified – miste di atleti e atlete, con e senza disabilità –: l’Iraq saluta il Giappone che passa, l’allenatore del Kenia si alza per dare il cinque al collega giordano e gli fa posto a sedere, mentre l’Italia festeggia il suo 4-3 alla Germania. Questo è lo stesso palazzo che ha visto il trionfo di Jannik Sinner all’Atp finals e le pari opportunità passano anche da qui. Dai luoghi. Da quello che simbolicamente rappresentano.

Sabato sera si spegne la fiamma di Torino 2025, ma tutte queste persone continueranno a lavorare ciascuno nei luoghi di provenienza perché resti accesa nella vita. Non per caso la chiamano la fiamma della speranza. Tutti sanno che il lavoro da fare è tanto e la strada pure.





Dal sito Famiglia Cristiana

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