Una integrazione riuscita, dopo pericoli e privazioni. Rimasto senza familiari, il giovane 34enne vive a Merano dove lavora nella comunità socio-pedagogica che lo ha accolto vent’anni fa. “Un miracolo che fosse rimasto sano dentro. Alidad è stato un dono per far aprire gli occhi sul mondo dei rifugiati”, dice Gina Abbate, l’insegnante che lo aiutò a scrivere il libro “Via dalla pazza guerra”, regalato anche al Papa. Il sogno è aiutare il suo Paese a tutelare i diritti di donne e bambini
Antonella Palermo – Città del Vaticano
“Per me la speranza è che tutti ovunque abbiano il diritto di costruire una società e un mondo più giusti. Perché il mondo così non funziona”. Lo dice Alidad Shiri, 34 anni, nato a Ghazni, in Afghanistan. Vive ora a Merano, in Alto Adige. Ha un doppio lavoro, la sua vita raccontata in un libro, il sogno di lavorare all’Onu. Arrivò a Trento nel 2005 dopo un viaggio odissea cominciato quando era un bambino, lungo il quale la speranza è stata il balsamo che ha fasciato piedi logori e feriti, l’àncora di salvataggio nel pericolo certo, l’approdo felice in una rete non più di schiavi ma di servitori.
Una rete di aiuto lo salva, Alidad risponde promuovendo l’integrazione
La storia di Alidad non è ignota perché nel tempo ha trovato brecce comunicative virtuose. Il fatto di proporla qui è tuttavia un modo per moltiplicare l’eco di speranza e determinazione che contiene. Pakistan e poi Iran, Turchia, Grecia e, infine, in nave in Italia, fino a giungere a Bressanone, legato di nascosto all’asse delle ruote di un camion. Fame, sete, agguati non lo hanno annientato. Oggi ha all’attivo una laurea in Filosofia conseguita all’università di Trento sulla situazione politica del suo Paese, un inno d’amore per la sua gente ripiombata nella negazione delle libertà. Arrivare al titolo di studio ha significato imparare da zero una lingua sconosciuta che ora padroneggia in ogni sfumatura. L’aiuto è arrivato da un centro di accoglienza diventato una famiglia, un serbatoio di amicizie: ora ci lavora in questa comunità socio-pedagogica, nell’ottica di una sorta di restituzione del bene ricevuto. È il Kinderdorf, organizzazione inclusiva che si adopera per bambini, giovani, genitori in difficoltà. La scuola non lo ha abbandonato mai: “I miei compagni andavano a vendere le loro merende per me, per finanziare il mio futuro. Una cosa straordinaria in Italia. Sono molto grato a tante persone che in questi anni mi hanno sostenuto e mi hanno dato una mano, persone che lavorano nell’anonimato ma che stanno cercando di salvare l’umanità. Io nel mio piccolo faccio di tutto per sensibilizzare sui temi dell’integrazione, incontro tantissimi giovani, loro sono ancora senza pregiudizio e sono il futuro”.
L’insegnante Gina: è stato un dono per me
Tra coloro che più di tutti ha seguito Alidad nell’apprendimento di una nuova cultura, c’è stata Gina Abbate, insegnante di Lettere all’epoca. “È stato un segno della provvidenza del Signore. Mi piace vederlo come il piccolo Mosè che è stato salvato dalle acque. Io non è che avessi intenzione di accogliere ma solo di dare una mano nell’alfabetizzazione con un poco di volontariato – racconta -, poi mi entrato dentro tutto un mondo”. Ricorda di essere sempre stata aperta all’impegno per la pace, con Pax Christi. “A un certo punto della mia vita, quando sono andata in pensione, ho conosciuto Alidad, che mi è stato affidato. È stato l’inedito che non cerchiamo. L’ho visto come un dono poterlo aiutare. Io conoscevo storie di famiglie ma di ragazzi che arrivavano da soli non ne conoscevo. Mi sono documentata ed è come se avessi fatto un viaggio pazzesco insieme a lui”. Racconta di come lo abbia spronato a scrivere in un libro la sua vicenda. “Via dalla Pazza Guerra – Un ragazzo in fuga dall’Afghanistan” uscì nel 2007 grazie all’intuito di Vincenzo Passerini, allora direttore della casa editrice Il Margine, ripubblicato in una versione ampliata quattro anni fa da HarperCollins Italia con la doppia introduzione a cura di Filippo Grandi e Gianni Magazzeni (Unhcr).
La storia di Alidad portata nelle scuole per “aprirci gli occhi”
Gina racconta i primi incontri nelle scuole in cui lei lo accompagnava per presentare il testo. “Dicevano tutti ‘che miracolo che sei arrivato vivo!’. Sì, dicevo io anche a lui. Ma aggiungevo che era un miracolo fosse rimasto sano dentro. Perché questi viaggi distruggono le persone. Lui ha desiderato andare avanti. Io l’ho sostenuto in tutto. Loro ci insegnano, loro che hanno ferite ancora aperte. Eppure, nonostante tutto questo, lui aiuta ad avere speranza per gli altri perché ha una motivazione dentro: sa che il suo vissuto può essere d’aiuto, può servire ad aprire gli occhi a noi, perché la nostra società diventi più umana”. La professoressa Abbate è molto orgogliosa di come ha contribuito alla realizzazione di Alidad, tanto più perché è stata lei stessa ad allargare gli orizzonti: “Io avevo comprato delle carte geografiche e un piccolo vocabolario italiano-farsi. Perché all’inizio temevo di non capire bene, e invece avevo capito bene di che tragedia si trattava. E sulla carta vedevo e capivo”. Insieme si rifaceva il viaggio. “Una ragazza piangeva commossa in classe e anch’io dentro di me. Era come se quei posti li avessi visti pure io. Lei gli chiedeva come poteva essere accaduto che la zia lo avesse lasciato andare in balia di pericoli immani. È una cosa che qui non si comprende, per noi è una incoscienza, ma non era così”. Lo aveva fatto per difenderlo da una fine quasi sicuramente atroce.
L’incontro con il Papa: che guarisca, abbiamo bisogno di lui
“La speranza è aprirsi a orizzonti inediti, che non ci aspettiamo”, dice Gina. “Da allora sono molto attenta a tutto quello che succede in Afghanistan, già lo ero prima ma era una teoria, ora è entrato nella mia vita. È un arricchimento della mia sensibilità, perché altri siano arricchiti, non è solo per me”. Alla gratitudine per l’incontro con Alidad si somma quella per l’incontro con Papa Francesco, in udienza entrambi a dicembre 2021. “Ancora una grande commozione ripensarci. Uno sguardo molto bello aveva il Papa; provo grande consolazione perché lui cerca di esprimere in tutti i modi che siamo a un bivio di civiltà e anche a un bivio di fedeltà al Vangelo, per i cristiani. Tanto più i credenti dovrebbero capirlo: che siamo credenti se accogliamo, altrimenti sono solo parole. Lo accompagno nella preghiera, con amore e affetto, in questi giorni di malattia”. Anche Alidad, musulmano di origine, diventato agnostico, augura pronta guarigione a Francesco: “Mi ha segnato, nel senso che ho riconosciuto una luce, un qualcosa che ti trasmette che resti senza parole. È una persona straordinaria che ha sempre cercato di difendere i diritti di tutti. Un mito per me. Abbiamo bisogno di persone come lui”.
“Sono andato oltre il mio sogno”
Lo ripete spesso, Alidad: “Io sono andato oltre il mio sogno”. Perché quando rimase senza nessuno, nemmeno sognava più. Raccontare verbalmente e con la scrittura lo aiuta a fare i conti con un passato pieno di insidie, ma alle volte si fa fagocitare da tanti impegni quasi per esorcizzarlo e non pensarci più di tanto. Ma non si può eludere. “Alle volte ho gli incubi. Nessuno vuole diventare un rifugiato. Nemmeno io. Noi veniamo raccontati o in modo aggressivo o in modo paternalistico. Noi invece abbiamo una storia, abbiamo fatto un percorso, siamo persone, con una dignità. Vogliamo diventare risorse per questo Paese”. E osserva che secondo la Carta di Roma il 93 percento delle volte non sono i rifugiati a parlare in prima persona ma altri a loro nome. “Io invece racconto in giro”.
Suo padre era funzionario, aveva una famiglia benestante. Alidad aveva nove anni quando morì per l’esplosione di una mina che fece saltare la macchina in cui viaggiava. Sei mesi dopo, con la sorella e il fratello il bambino andò dalla zia lasciando la madre, la nonna e un’altra sorellina; più tardi avrebbero appreso di un bombardamento che aveva ucciso pure loro. “Ero sotto shock. Dopo un anno con la zia raggiunse il Pakistan dove rimase ad aiutare in un negozio. Suo malgrado si fidò della parente, che aveva percepito i rischi eccessivi di una permanenza là, e da solo cominciò l’avventura che lo portò in Iran. “Qui lavoravo in una fabbrica, usavo la mia lingua, simile al persiano, e questo mi aiutava. Però cercavo sempre di essere invisibile. Anche dal medico avevo paura a farmi visitare perché pensavo che mi avrebbe mandato dalle forze dell’ordine. Il mio sogno era di studiare, ne parlavo con mia zia ma lei mi diceva che non potevo tornare indietro. Un trafficante mi aiutò ad uscire ma non venne con me. Mi chiesero altri soldi ma noi in realtà avevamo già pagato. Abbandonati su una montagna una settimana, mangiammo l’uva e qualche vitamina. Qui incontrai un pastore che mi diede le sue suole per le scarpe. Io non volevo morire là. A Istanbul sono rimasto tre mesi. Da Patrasso, in Grecia, avevo la possibilità di pagare qualche trasportatore ma non sapevo quale sarebbe stata la destinazione. Allora non ho pagato nessuno e mi sono legato sul semiasse di un tir. Due notti e un giorno in quel modo. Avrei dopo scoperto che l’autista non era italiano ma tedesco e che non ero arrivato ad Ancona ma a Venezia. Io piangevo e urlavo durante il tragitto, andava veloce, ma nessuno mi sentiva. In autostrada ho camminato a lungo. Non capivo nulla. Ho avuto un passaggio fino a Bressanone”. Iniziava una nuova pagina della sua vita.
A Cutro, cercando il corpo del cugino, chiedendo verità
Alidad adesso fa anche il giornalista per il giornale Alto Adige. In occasione del naufragio di Cutro in cui persero la vita 94 persone, si precipitò in Calabria per cercare di trovare il cugino che era proprio sull’imbarcazione rovesciata. “L’ho cercato dappertutto. Ho visto decine e decine di immagini ma lui non c’era. Solo dopo quasi un anno siamo riusciti a dire alla zia cosa era successo. Lei ancora prega che prima o poi ritorni”. In quella circostanza si adoperò per fare da mediatore culturale, visto che la maggior parte delle vittime era composta di afghani. “Per me, dall’Afghanistan, non era una novità vedere cadaveri, purtroppo, ma quello che ho visto là è stato straziante. Arrivavano per il riconoscimento familiari dalla Finlandia, dalla Germania, dal Belgio, dall’Olanda. Io davo una mano alla Polizia scientifica. Ma molti sono rimasti in Afghanistan, in Iran. Abbiamo fatto tante videochiamate ma per molti non è stato possibile arrivare a niente. Tuttora di mio cugino non si ha il corpo”. Alidad racconta dei cadaveri di bambini ormai diventati blu, quasi irriconoscibili. “Ho visto cose terribili. Da noi il mare non c’è quindi tanti non sapevano nuotare. Di una famiglia di 21 persone solo in 5 sono riusciti a sopravvivere. Un’altra storia che mi aveva colpito molto riguardava una signora la cui sorella viveva a Rotterdam. Da Herat è fuggita, attraverso la Turchia. Saliti su quella barca. Era una donna istruita. E proprio questo l’aveva fatta fuggire”. Per riprendersi dai traumi Alidad ha dovuto ricorrere all’aiuto di uno psicoterapeuta. “Noi ancora chiediamo perché non sono scattati i soccorsi a Cutro. Non è possibile che nessuno abbia fatto abbastanza. La nostra vita è cambiata. La ricerca della verità continua”.
La speranza di aiutare il progresso dell’Afghanistan
Gli strati di speranza sono ancora tanti per Alidad: c’è anche quello di lavorare all’Onu: “In realtà il mio sogno è ritornare nel mio Paese a difendere i diritti dei bambini. Ho visto tantissimi di loro vivere per strada. Sopravvivevano vendendo fiori o cose così. Già lì volevo fare l’avvocato per difenderli. Poi ho studiato filosofia politica. Alle Nazioni Unite potrei farei molte più cose in quest’ambito. Ho fatto un tirocinio già”. La considera una porta ancora aperta, Alidad. Il suo pensiero è soprattutto alle donne del suo Paese: “Sotto il primo governo talebano, dal ’96 al 2001, nessuna donna poteva uscire di casa. Poi le donne sono tornate a studiare, hanno cominciato ad avere una dignità. Noi avevamo 2500 giornaliste, fino al 15 agosto del 2021, e 5000 donne che lavoravano al Ministero della Difesa e dell’Interno. Tantissime – ricorda – sono diventate avvocato o magistrato, imprenditrici, medici, professori. Con il ritorno dei talebani si è tornati indietro. Ora è molto più difficile. Le scuole coraniche erano 1200, oggi sono 19mila, ma il problema è che manca un pensiero politico e un filosofico, c’è solo una teologia speculativa. Tante donne sono rimaste lì, vogliono difendere le loro conquiste. Il fatto è che è nostro dovere morale in Occidente di aiutarle. La comunità internazionale sta inviando 50 milioni di dollari a settimana in Afghanistan ma ci vuole rispetto, e io purtroppo non lo vedo. Penso comunque che tutto il cammino che era stato fatto non andrà perso”.