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Cecilia Sala: «In carcere ho contato i giorni leggendo il pane. Ora penso a chi è rimasto a Evin»

«Sono confusa, felicissima, mi devo riabituare. Questa notte non ho dormito per la gioia, mentre nelle scorse notti non dormivo per l’angoscia. Ma sto bene». Dopo 21 lunghissimi giorni di attesa la voce di Cecilia Sala torna a risuonare sul suo podcast «Stories», pubblicato su Chora Media. La giornalista – arrestata il 20 dicembre a Teheran, in Iran, con una generica accusa di «aver violato la legge islamica» e liberata mercoledì al termine di un delicato lavoro di diplomazia – ha raccontato oggi, dialogando con il direttore di Chora Mario Calabresi nella puntata numero 694 del podcast, alcuni momenti delle sue tre settimane di detenzione all’interno del famigerato carcere di Evin. Molte cose non può dirle per via delle indagini ancora in corso, la voce si incrina spesso nel ricordare soprattutto i passaggi più duri della prigionia, ma questa prima testimonianza di Cecilia Sala dopo il suo ritorno in Italia colpisce in ogni singola parola.

«Quando sei lì dentro non hai nulla da fare, non ti stanchi, non hai sonno. Un’ora sembra una settimana. Così ho iniziato a contare i giorni, a leggere gli ingredienti del pane. Ho chiesto un libro da leggere, per immergermi in una storia che non fosse la mia. Solo alla fine mi hanno dato Kafka sulla spiaggia di Murakami. Leggere mi ha salvata. Poi quando l’ho sentito ho chiesto al mio compagno Daniele di comprarlo anche lui. In modo da poter essere nello stesso posto con la testa senza esserlo con il corpo», racconta la reporter che poi conferma le voci sulle varie privazioni subite. «Ho chiesto lenti a contatti o occhiali ma me li hanno dati solo gli ultimi due giorni. Non ho potuto scrivere perché la biro è considerata una potenziale arma, così come il vetro degli occhiali. Dormivo senza cuscini e materassi. Il dormire era peggio del mangiare. La cucina persiana per me è favolosa, certo in carcere non è come fuori. Ho mangiato tanto riso».

Ciò che inevitabilmente Cecilia Sala ha potuto fare, nella situazione in cui si trovava, è stato pensare. Tanto. E non sempre i pensieri sono andati nella direzione più felice: «Pur non essendo mai stata minacciata fisicamente ho pensato anche di poter morire. Facevo previsioni positive e negative sul mio destino e non pensavo certo di essere liberata così presto». Tra i tanti pensieri di Sala anche quelli legati alle accuse a suo carico, mai realmente specificate e tuttora da chiarire ma sempre oltremodo pericolose in uno Stato come l’Iran: «Ho preso in considerazione di essere accusata per pubblicità contro lo Stato Islamico e anche di fatti molte più gravi. Loro invece mi han detto solo di essere accusate di azioni illecite in tante zone diverse. Mi hanno interrogata tutti i giorni per le prime due settimane. Su cose che volevano sapere realmente e anche su altre per confondermi». In alcuni momenti però la giornalista italiana è riuscita a trovare il sorriso e il conforto da piccoli elementi: «Ho riso due volte ad Evin. La prima quando ho visto il cielo dal cortile del carcere e poi quando ho sentito il suono di un uccellino. In carcere il silenzio è un nemico». Inoltre, negli ultimi giorni di prigionia nella sua cella è arrivata un’altra donna, un’iraniana accusata di essere un’oppositrice del regime: «Lei non parlava molto l’inglese, io parlavo poco il farsi. Ci siamo abbracciate, ci siamo sorrise e abbiamo provato a ridere. Abbiamo guardato molte volte in alto verso la finestra e ci siamo fatte coraggio insieme. Quando mi han detto che mi avrebbero liberato, prima di gioire, avevo tante sensazioni confuse. Quella donna sarebbe rimasta da sola una volta che io me ne sarei andata. Ho provato il senso di colpa dei fortunati. Siete stati tutti molto bravi. La mia famiglia, voi colleghi, il governo, la diplomazia».

Alla domanda specifica di Calabresi se il suo arresto può essere legato a quello di Mohammad Abedini, l’ingegnere iraniano arrestato 3 giorni prima della reporter a Milano con un mandato d’estradizione statunitense, Sala risponde chiaramente: «Ho pensato che potessero usarmi per quel motivo. Ho pensato che sarei rimasta ad Evin a lungo. Ci sono tante persone che sono lì da molto tempo». E proprio a queste persone la giornalista ha pensato dopo la sua liberazione e continua a farlo anche ora: «Quando andiamo in Iran o in Ucraina per raccontare e lavorare, noi poi possiamo scegliere di tornare a casa. Chi vive là non può farlo. In questi ventuno giorni ho perso questo privilegio e ciò mi ha fatto assumere maggiori responsabilità verso queste persone e la loro situazione».

Adesso Cecilia Sala in Iran difficilmente tornerà, ma il suo pensiero verso quel luogo non è cambiato: «Io continuo ad amare l’Iran, non è cambiato niente. Amo anche le donne iraniane che indossano fieramente il velo, ma che lottano contro coloro che intimidiscono le ragazze che non lo indossano. Amo l’Iran nelle sue complessità. Non è cambiata la mia comprensione del paese, provo solo più nostalgia per tanti amici che abitano lì».





Dal sito Famiglia Cristiana

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