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Rino Fisichella: Giubileo 2025, un tempo per dire che il male non ha l’ultima parola



Monsignor Rino Fisichella, incaricato dal Papa dell’organizzazione dell’Anno Santo 2025. Sopra: la folla saluta papa Francesco in uno dei momenti finali del Giubileo della Misericordia, 2016. Foto nell’articolo: ANSA.

«Il Giubileo della speranza viene a collocarsi come una risposta a tutto quello che l’umanità e le singole persone vivono in questo contesto storico». Monsignor Rino Fisichella, pro-prefetto della Sezione per le questioni fondamentali dell’evangelizzazione nel mondo del Dicastero per l’evangelizzazione e incaricato dal Papa dell’organizzazione dell’Anno Santo, spiega che proprio in momenti che sembrano così di disperazione ha senso un Giubileo che «ci richiama a essere “pellegrini di speranza”».

Eccellenza, come si fa a sperare con la guerra in Ucraina, il Medio Oriente in fiamme, la Siria, ma anche con le povertà di casa nostra, con la violenza?

«Le guerre hanno un grande impatto perché uccidono ciecamente gli innocenti, distruggono le case. Ma non dobbiamo dimenticare anche le altre forme di violenza che colpiscono la nostra vita quotidiana e che mettono a dura prova la speranza di tante persone. Penso in modo particolare a una situazione tipicamente italiana per la quale abbiamo creato perfino un nome: “il femminicidio”. Ogni mese vengono uccise circa 16 donne e queste sono vittime innocenti, spesso insieme con i loro figli. Pensiamo anche ai morti sul lavoro, a quelli per la strada, alle stragi del venerdì e sabato sera, e potrei continuare… Sono proprio queste situazioni che aumentano il desiderio della speranza. Dobbiamo però convincerci che essa non ci viene data perché viviamo una situazione di violenza e di malvagità. La speranza ci viene data per costruire il nostro presente. È un impegno a diventare noi stessi segni concreti di speranza».

Nel suo libro tocca il tema della morte rimossa. Racconta di aver visto un picnic in un cimitero.

«Si tratta di un tema fondamentale e mi auguro che la nostra catechesi, in questo Anno, ritorni a occuparsene. Il senso della morte, purtroppo, è venuto meno nella nuova cultura che viviamo. Sembra che tutto sia fiction, serial tv. La morte, invece, è una realtà con la quale ognuno di noi ha bisogno di confrontarsi. E l’annuncio che noi siamo chiamati a dare della speranza, non soltanto nel Giubileo, ma in ogni giorno della nostra esistenza cristiana, è quello che la morte è vinta perché Cristo è risorto. In questo senso il Giubileo diventa una profonda occasione di evangelizzazione».

Per questo compare anche il segno dell’àncora nel logo?

«I primi cristiani, già alla fine del I secolo, nelle catacombe di Priscilla a Roma mettevano delle epigrafi – ne abbiamo oltre 70 – sulla lastra che copriva il muro dove era deposto il defunto. C’era sempre l’àncora cristiforme. Indicava la speranza cristiana, la certezza della fede nella risurrezione. L’abbiamo voluto, questo simbolo con la croce ancorata al cielo, per il Giubileo. Riprendendo la Lettera agli Ebrei, abbiamo voluto sottolineare che bisogna rimanere aggrappati a Cristo, nostra speranza, come a un’àncora. Nel mare, che è il segno della vita con le sue gioie e i suoi dolori, con le sue difficoltà e con le violenze di cui abbiamo parlato, dobbiamo rimanere in Lui, che ci dà sicurezza, fedeltà e la certezza dell’amore che non può venire meno».

Questo sarà il primo Giubileo di Internet?

«È vero. Ne stiamo facendo grande uso. In quello del 2000 avevamo soltanto l’e-mail. Già all’epoca ricordo la sorpresa di alcuni collaboratori al vedere che i testi, nel giro di qualche secondo, arrivavano in tutto il mondo. Adesso ci confrontiamo con un altro mondo. Il Web ci impone di saper coglierne anche il limite. Questo strumento ci mette fretta, ci dice che dobbiamo fare tutto subito, ma la speranza, invece, richiede anche pazienza. Occorre valutare con calma la nostra vita. Per questo il Giubileo è necessario come un momento durante il quale ci fermiamo e riflettiamo maggiormente su noi stessi per metterci poi in cammino verso Cristo che è la Porta Santa».

Sarà anche un Giubileo dei cammini a piedi. Questo può aiutare a recuperare la lentezza?

«Certamente. Il pellegrinaggio si è sempre fatto a piedi perché questo mettersi in cammino diventa il simbolo della nostra esistenza: noi siamo pellegrini, ma non siamo erranti. L’errante non ha una meta, noi invece sappiamo dove andiamo. Dai dati che abbiamo ricevuto aspettiamo circa 100 mila persone a piedi, da diverse parti d’Italia e anche d’Europa. Questo ci riempie di gioia perché fa comprendere quanto la riscoperta del cammino sia fondamentale nella vita delle persone perché porta a un cambiamento e a una conversione. Il Giubileo della speranza, oltre a portare tanti pellegrini a piedi, li porterà anche in bicicletta, con la canoa, a cavallo. C’è un profondo desiderio di partecipazione nelle varie categorie. E noi dobbiamo essere capaci di accogliere tutti, consentendo però che alla Porta Santa, simbolicamente, si vada attraverso un breve pellegrinaggio a piedi».

Ci sono ancora tanti cantieri. Roma è pronta ad accogliere tutti?

«Stiamo lavorando da due anni in stretta collaborazione con il Governo e con il Commissario governativo Roberto Gualtieri, sindaco di Roma, con le altre autorità, la Prefettura, la Regione. Alla vigilia dell’apertura della Porta Santa posso dire di sì: il Giubileo presenterà ancora una volta il volto della bellezza di Roma nonostante i suoi limiti. Spero che i pellegrini saranno contenti di essere accolti, in sicurezza, nella città di Pietro e Paolo e di poter godere di quella accoglienza tipica della Città eterna che tanti Giubilei ha conosciuto nella sua storia».

Sia nella Bolla, ma anche nel suo libro, sono evocati gesti concreti che incarnano la speranza. Quali sono?

«Questo Giubileo si caratterizza in duplice modo: per l’annuncio della speranza e per i segni concreti. Il Papa ne elenca alcuni, dalla pace all’apertura alla vita, dai giovani agli anziani, dagli emarginati ai poveri, ai migranti, ai profughi, ai malati, a tutti coloro che hanno bisogno di ricerca. Oltre a questa attenzione, però, deve esserci la consapevolezza che ognuno di noi è personalmente un segno di speranza. Perché ciascuno conosce le varie situazioni in cui può essere direttamente coinvolto con una parola, un gesto, uno sguardo che possono portare agli altri la speranza».





Dal sito Famiglia Cristiana

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