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50 anni di Caritas Ambrosiana, Gualzetti: “L’elemosina non basta, servono diritti”


Quando Caritas Ambrosiana è nata era la metà degli Anni Settanta, Milano con Torino e Genova faceva parte del Triangolo industriale, era meta di immigrazione dal Sud, ma la crisi energetica del 1973 aveva lasciato il segno e intanto infuriava la tensione sociale fino all’esplosione del terrorsimo nero e rosso. Una società certo divisa, fino alla lacerazione armata, polarizzata, ma meno disgregata e parcellizzata di quella attuale che è fatta anche di tante solitudini. La povertà rimane, ma cambiano le sue forme e cambiano i modi di andarle incontro in un contesto cambiato. Abbiamo chiesto a Luciano Gualzetti, Direttore di Caritas Ambrosiana, di guidarci a capire il cambiamento.

Dottor Gualzetti, andate da mezzo secolo in aiuto alla povertà in senso lato, in una diocesi molto grande: come sono cambiate le urgenze nel tempo?

«Siamo passati da una carità e quindi da un modo di vedere e di aiutare i poveri molto assistenziale, che cercava di dare risposte immediate al costruire dei servizi, delle prestazioni. Ci rendiamo conto che bisogna insistere molto di più sulla sulla dignità delle persone in difficoltà, sul fatto che sono cittadini che hanno dei diritti e che bisogna attivare non solo dei soccorsi immediati come Caritas, ma bisogna impegnarsi per riattivare la responsabilità di coloro che possono fare qualcosa, in primis le Istituzioni, con misure universali di aiuto che possono veramente incidere sul sui processi di impoverimento o su percorsi di ritorno dalla povertà a una vita dignitosa. Ci sono diritti che noi diamo per scontati, cui una fetta di popolazione non ha accesso».

Abbiamo un problema con l’articolo 3 della Costituzione? 

«Molte persone vengono da noi e perché e non riescono a curarsi oppure la l’istruzione dei figli. L’abbiamo visto durante la pandemia c’era chi poteva seguire le lezioni e chi no, solo perché mancava la linea o non c’erano gli strumenti informatici. I processi che tanto enfatizziamo adesso, come la transizione digitale ecologica, per alcuni sono un lusso. Il lavoro è un mondo che vede alcuni tutelati, con un contratto regolare adeguato, un buon welfare aziendale e altri che non riescono neanche a arrivare a fine mese, nonostante lavorino: è quello che chiamiamo lavoro povero».

Quando non sono i nuovi schiavi di un lavoro senza diritti.

«Appunto, si arriva addirittura agli invisibili, agli scarti, sfruttati. Anche a Milano abbiamo trovato situazioni che potrebbero essere paragonabili al caporalato».

La procura della Repubblica di Milano ha scoperchiato casi nella filiera fiore all’occhiello del made in Italy…

«Le aziende devono rendersi conto che quando esternalizzano qualcosa devono controllare non solo la prima che prende la commessa, ma tutta la filiera del subappalto perché tutta questa enorme ricchezza che comunque Milano riesce a produrre, nella città di Milano, e nel circondario si appoggia anche sulla vita di lavoratori che lavorano in nero perché magari non hanno il permesso di soggiorno, o perché poi vengono pignorati, perché sono indebitati e non possono rientrare perché devono sopravvivere. C’è un tema di diritti fondamentali: la casa a Milano è diventata per troppi proibitiva».

È cambiato anche il vostro modo di aiutare le persone? 

«Sì, certamente rimane il soccorso, l’aiuto immediato e tempestivo, ma da tempo cerchiamo soprattutto di mettere in campo strumenti che danno risposte strutturale: come il fondo famiglia-lavoro, i vari fondi che abbiamo strutturato i con l’ottica di cercare le ricercare le cause e rimuoverle. Perché sennò se ci si limita a mettere un cerotto che tampona ma non cura. Mezzo secolo fa non avevamo centri di ascolto, oggi ne abbiamo 400, sono le antenne che captano i bisogni in tutta la tutta la diocesi».

Milano che si vantava da una parte della propria produttività dall’altra del cuore in mano, è ancora capace di solidarietà?

«C’è una grande generosità: Milano ha una miriade di iniziative che vanno dalle parrocchie alle associazioni laiche, alle grandi aziende che fanno solidarietà, il problema è che la Chiesa ci ha affidato il compito di promuovere una carità che non si accontenta della beneficenza, un volontariato che non si accontenta di dare delle cose. Non si può dare per carità quello che è previsto per giustizia: perché questo lega la persona all’assistenza, mentre bisogna favorire l’emancipazione.  A Milano ci sono esperienze molto emancipanti, ma ci sono ancora anche delle forme molto assistenziali. Nessuno ha la bacchetta magica, non c’è mai una soluzione unica ma è l’idea che cerchiamo di promuovere nelle parrocchie nelle aziende: ci sono imprese che colgono l’esigenza e questa urgenza di fare le cose mettendo insieme tutte gli aspetti stando attente a promuovere progetti solidali e anche a rispettare regole e diritti nella filiera di produzione, e altre, ma qui ci metto dentro anche pezzi di terzo settore, che invece si accontentano  della beneficenza, di un gesto episodico che non cambia niente nello stile  e nel sistema. Solo cambiando le cose si cambia la condizione delle persone che restano escluse: queste queste fragilità che chiaramente vanno affrontate anche in termini di interventi riparativi se vuole, però bisogna fare prevenzione».

Le statistiche parlano di distanza che aumenta tra centro e periferia, tra ricchi e poveri, nel vostro lavoro la vedete?

«Soprattutto nelle città si vede la polarizzazione tra ricchi e poveri. È una differenza di opportunità: il divario tra ricchezza e povertà non è solo questione di presenza o di assenza di strumenti economici, è anche la mancanza di opportunità per accedere a certi studi, a certe cure di lì, di frequentare certi ambienti, di fare esperienze culturali e sportive nel tempo libero… Chi abita in certi quartieri e vive certe situazioni, tutte queste opportunità non le ha. Recentemente abbiamo parlato di trasmissione generazionale della povertà: chi nasce in una famiglia povera e molta più probabilità di rimanere povero perché non può accedere a opportunità di studio e lavoro che altri hanno. Tutto questo è esasperato da una velocità di sviluppo ma anche di cambiamenti che aumentano le differenze». 

Puo fare un esempio?

«La transizione ecologica è uno: tutti diamo per scontato le lampadine a LED, la caldaia, le finestre con i doppi vetri, la razionalità dell’efficientamento energetico che abbatte i consumi, rispetta l’ambiente, il creato e tutto quanto, ma non tutti possono permetterselo. Però noi qui incontriamo persone che hanno bollette altissime perché tutto questo non hanno potuto farlo: sarebbe più razionale aiutarle a ottenere questo anziché pagar loro la bolletta, anche se poi lo si fa ugualmente perché altrimenti si vedono tagliare la luce».

Nei vostri rapporti si parla anche di rischio usura e di gioco d’azzardo, c’è un collegamento?

«Tutte queste difficoltà nel far fronte alle spese spingono le persone a indebitarsi, quando non trovano più i soldi per restituire rischiano di rivolgersi a chi i soldi te li dà in modo facile, ma poi ti intrappola. Il gioco d’azzardo è insieme un effetto e una causa di povertà: causa perché se tu giochi i pochi risparmi che hai poi ti rovini, ma è anche un effetto perché quando sei disperato tenti anche la fortuna, in modi irrazionali: lì dentro c’è tutto lo scenario di coloro che sono entrati in una vera e propria dipendenza accalappiati da questo sistema del dell’azzardo, che chiaramente crea dipendenza e quindi ci sono anche persone malate». 

È vero che la solidarietà si trova sempre di più ai tappare i buchi quando le istituzioni non ci arrivano o si danno priorità diverse? 

«Sì, capita anche questo. Naturalmente ci sono delle istituzioni che cercano di fare bene il loro mestiere. È chiaro che politicamente un’amministrazione comunale, una regione pososno orientare le risorse più o meno da una parte, dall’altra da da in maniera che vada oltre le prossime elezioni, però la battuta “tanto c’è la Caritas” è diventata normale, ma questo non era proprio nello spirito della Caritas, che vuole portare a tutti coloro che hanno una responsabilità al compito che è loro proprio, per evitare di sopperire con i pochi strumenti che abbiamo. L’auspicio è quello anche le imprese possano creare ricchezze con una responsabilità sociale che non sia di facciata, ma veramente cerchi di aiutare i propri lavoratori che lavorano per quell’azienda e quelle che abitano la comunità. Ma anche le istituzioni devono avere uno sguardo che parte dai fragili, perché aiutando loro, poi aiutano anche l’intera comunità. Perché se dimentichi qualcuno indietro, prima o poi, questo diventa non solo un peso, diventa anche un problema non solo di sicurezza, ma anche di convivenza. Si tratta di capire che tra i propri cittadini non è tollerabile lasciare alcuni in stato di indigenza. Questo dovrebbe essere il mantra, la priorità di tutte le amministrazioni comunali, regionali, statali eccetera».

Stiamo diventando individualisti, stiamo smarrendo il senso di bene comune?

«Bisogna definire che cosa si intende per bene comune, però certamente quando tu cerchi di capire che cosa devi fare in termini di priorità, dove collocare le tue risorse, le tue attenzioni devi cercare una prospettiva che vada bene a tutti coloro che fanno parte della Comunità, quindi anche gli ultimi: i beni di una comunità non sono solamente le ricchezze, ma sono le strade, decoro urbano, quartieri vivibili, l’aria pulita, l’acqua accessibile a tutti, un cibo sicuro per tutti. Se uno assume questo sguardo integrale, diciamo così, riesce a trovare delle strade più efficaci, non sto dicendo che è facile. Ma a volte ci si riduce a quelle più convenienti in termini economici o elettorali e quando è così il bene comune».

Nella vostra missione ci sono il coordinamento e l’educazione: anche la solidarietà e il volontariato hanno bisogno in senso lato di professionalità?

«Il bene va fatto bene. Per farlo bene ci vogliono delle competenze, ci vuole anche del un’organizzazione e come dicevo prima, abbiamo imparato ad attrezzarci. Ci siamo dotati certamente anche non solo di tantissimi volontari che mettono a disposizione non solo il loro tempo gratuito, ma anche la loro professionalità. Accanto a questi chiaramente ci sono anche molti professionisti dentro strutture organizzate come le cooperative, le fondazioni che danno continuità a risposte che comunque hanno bisogno di di efficacia. E l’efficacia poi non è data da quante persone vengono aiutate, da quanti pacchi vengono distribuiti, ma nella capacità di cambiare la mentalità delle persone,  non solo dei poveri, ma anche delle comunità cristiane e delle comunità civili che che chiaramente devono essere aiutate a vedere, le cose: a vedere i poveri innanzitutto, ma anche a riconoscere le cause della povertà e a cercare di cambiare le cose».





Dal sito Famiglia Cristiana

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